Pechino, 18 mar. – Nella notte di lunedì scorso "Google's got mail". Indirizzata a John Liu (responsabile delle vendite e dello sviluppo commerciale in Cina continentale, Hong Kong e Taiwan), la lettera recava le firme delle 27 società che collaborano con Google in territorio cinese poneva degli interrogativi sulle modalità con cui Google prevede di rimborsare i propri partner, il cui business, già in perdita, sarebbe ulteriormente compromesso qualora il più grande motore di ricerca del mondo abbandonasse il "Paese del Centro". Nella giornata di ieri, la compagnia di Mountain View dava conferma di averla ricevuta e assicurava di aver iniziato ad analizzarla. Viene da chiedersi dove sia la notizia. Fino a qui, infatti, nulla di strano: fidati collaboratori che da anni lavorano per gli interessi di Google, decine di migliaia di clienti che hanno versato nelle casse del motore di ricerca il proprio denaro in anticipo per i servizi pubblicitari e file di investitori che vedono volatilizzarsi le speranze di profitto hanno tutto il diritto di esprimere il proprio disappunto e chiedere delle risposte puntuali. "Da quando il 13 gennaio il direttore legale di Google ha annunciato sul blog ufficiale che Google stava riflettendo sulla possibilità di uscire dal mercato cinese, si sono diffuse numerose voci. […] L'unica risposta che abbiamo avuto da Google è stata di aspettare – aspettare con estremo dolore e pieni di incertezza. Oggi non possiamo più continuare così. Non possiamo aspettare ancora" si legge nella lettera. Ma l'affaire fa scalpore perché nessuno dei 22 firmatari, contattati da Bloomberg, conferma di aver sottoscritto la mail. Al complicato puzzle che da oltre due mesi riempie le pagine delle testate internazionali si aggiunge così un altro tassello; il "Caso Google", infatti, sembra prestarsi ad un'analisi su più livelli: economico, politico e virtuale. Dal punto di vista economico, Google detiene il 33% del mercato cinese. Seconda solo a Baidu, che ha fidelizzato circa il 65% degli internauti cinesi, in caso di chiusura di Google.cn la compagnia americana potrebbe rimetterci qualcosa come 600 milioni di dollari, secondo le stime di JPMorgan Chase & Co. Da parte cinese l'eventuale abbandono da parte del primo motore di ricerca del mondo non sembra turbare i sonni di Li Yizhong, ministro per l'Industria e l'Information Technology: "Se Google decidesse di restare, sarebbe un bene per il mercato di Internet in Cina, e ne saremmo contenti - aveva dichiarato il ministro venerdì scorso-,tuttavia rispetteremo la sua scelta e, se andrà via, il mercato cinese continuerà a crescere". A pagare il conto più salato sarebbero forse i 27 partner, presunti firmatari della mail inviata lunedì e i loro dipendenti. Sul fronte politico, la questione è assai spinosa. Le relazioni tra Cina e Stati Uniti sembrano viaggiare sulle montagne russe in questi ultimi mesi: molti analisti osservano che, se i negoziati fallissero e Google lasciasse, l'immagine della Cina nel panorama internazionale risulterebbe compromessa, mentre il colosso di Mountain View riceverebbe una medaglia al valore. Al contrario, qualora il motore di ricerca mettesse in ginocchio il Dragone, il caso costituirebbe un precedente e ipotecherebbe la sovranità della leadership cinese di fronte all'ingerenza delle voci e degli interessi stranieri. Ma anche dal punto di vista del mondo del web, il caso presenta diversi problemi:già prima del 2006 (anno in cui acquisiva un dominio cinese) Google era stato oggetto di forme di ostruzionismo da parte del governo. La controversia attuale non è dunque una novità, e certamente non costituisce la principale preoccupazione del governo (attualmente impegnato sul fronte della lotta alla pornografia e al microblogging) e dei 384 milioni di netizen cinesi, di cui probabilmente solo una parte limitata accuserebbe il colpo della dipartita. I negoziati tra Google e Cina, intanto, proseguono.