Gli esportatori reagiscono all'euro forte
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Gli esportatori reagiscono all'euro forte

Gli esportatori reagiscono all'euro forte

Made in Italy. Doppia strategia per neutralizzare gli effetti del cambio: delocalizzazione e altissima specializzazione produttiva
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Franco Sarcina
Quanto rischia di penalizzare le esportazioni italiane l'euro forte? C'è allarme? O esistono dei meccanismi di compensazione che riescono a salvare l'export extra-europeo delle imprese italiane?
Andrea Dossena, economista di Prometeia, stempera le paure. «L'export italiano ha avuto, negli anni intorno al 2002-2003, una riqualificazione, che ha reso le nostre esportazioni meno sensibili alla variabile prezzo – specifica Dossena -. Di fatto, ora la maggior parte delle nostre esportazioni si attestano su segmenti "alti" del mercato, o su forniture business to business che non sono presenti a catalogo (ad esempio, i grandi macchinari utensili costruiti ad hoc su precise specifiche del cliente, ndr); in questi casi, la differenza di prezzo conta poco. Certo la situazione cambia quando parliamo di beni indifferenziati, dove l'apprezzamento dell'euro ha un impatto più immediatamente negativo. Ma in sostanza – conclude – i rischi sono altri».
Al di là delle analisi, però, ci sono alcune categorie che indubbiamente sono state penalizzate. Per esempio, Luca Turri, presidente dell'Unione dei costruttori delle macchine edili, stradali, minerarie e affini, spiega che nel suo settore «dove il 60-70% del fatturato viene realizzato all'estero, l'euro forte è molto penalizzante. Inoltre – sottolinea – negli ultimi tempi è cambiato il panorama dei presidi esteri: per esempio ora abbiamo molte difficoltà in Nord Africa, dovute innanzitutto all'instabilità politica. La nostra presenza è penalizzata anche in Russia e in tutta l'area non euro dell'Europa dell'Est, così come in Kazakhistan, un paese importante per noi. Inoltre – precisa ancora Turri – anche i rincari energetici che, secondo il mio parere sono più che altro di natura speculativa, ci creano timori, così come la tensione sulle materie prime, i cui prezzi sono in salita nonostante l'euro, a causa della forte domanda di Cina e degli altri paesi ex-emergenti. In pratica – conclude – c'è stata una contrazione della domanda del 5-10% nelle ultime settimane dovuta alla variazione dei cambi e all'aumento del costo del denaro. Tutto questo rallenta o rischia addirittura di vanificare la ripresa».
Meno pessimista è Giancarlo Losma, presidente dell'Ucimu (macchine utensili): «Di fatto – specifica – gli effetti del caro euro, ormai in atto da circa un mese, sono duplici. La capacità di vendere i nostri prodotti e le nostre tecnologie sui mercati dominati dal dollaro è sicuramente leggermente peggiorata. D'altra parte, il forte potere d'acquisto dell'euro ci dà qualche vantaggio per quanto riguarda le materie prime e i semilavorati. Per il futuro sono comunque ottimista, anche se le cautele sono d'obbligo».
Alla Pramac di Casole d'Elsa (Siena), che produce gruppi elettronici, 234,6 milioni di ricavi nel 2010, quotata in Borsa e con stabilimenti anche in Svizzera, Usa e Cina, in poco più di tre mesi è cambiato l'orizzonte del mercato. «L'anno era iniziato all'insegna dell'ottimismo e il nostro gruppo stimava una crescita per il 2011», racconta Paolo Campinoti, amministratore delegato. «Adesso – continua –, alla luce dell'aumento del prezzo delle materie prime e del dollaro debole, potrebbe essere opportuno rivedere in parte la localizzazione delle nostre produzioni. Il cambio ci penalizza e la riduzione dei margini per l'aumento dei costi, dovuto anche all'andamento del prezzo delle materie prime, ci rende meno competitivi rispetto ai concorrenti americani o asiatici sullo stesso mercato europeo. Fortuna che ci siamo mossi per tempo - sottolinea Campinoti – andando a posizionarci come produzione sia negli Usa sia in Cina».
Per la torinese 2A, componentistica auto, 45 milioni di euro di fatturato ottenuti per il 90% all'estero, in passato gli apprezzamenti dell'euro nei confronti del dollaro avevano comportato dei problemi. Però, questa volta, spiega Vincenzo Ilotte, direttore generale del gruppo, è diverso. «Avevamo affrontato rilevanti investimenti specifici per il tipo di produzione richiesta dagli americani e dunque - spiega Ilotte – i nostri clienti non hanno interesse a cambiare fornitore. E gli americani cui hanno chiesto di andare a produrre lì. E noi stiamo valutando la proposta».
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10/04/2011
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