Gli emergenti fanno diga sui capitali
ADV
ADV
Gli emergenti fanno diga sui capitali

Gli emergenti fanno diga sui capitali

Mercati e protezionismo. L'obiettivo è selezionare i flussi esteri che aiutano realmente le economie ma restano i dubbi sull'efficacia delle manovre
di lettura
PAGINA A CURA DI
Vittorio Carlini
Il broker americano compra un titolo di stato brasiliano? Nessun problema. A patto, però, di non scordarsi i denari per la nuova imposta sulle transazioni. L'investitore tedesco punta su Indonesia o Colombia? Ci può stare, ma niente mordi e fuggi: i soldi non possono espatriare prima di un tempo minimo (da un mese a un anno). C'è voglia di Argentina? Va bene, ma facendo attenzione: su particolari investimenti una quota dei denari stranieri (30%) va depositata in un conto non fruttifero locale.
L'elenco di simili limitazioni o tassazioni in giro per il mondo potrebbe continuare. È il protezionismo finanziario. Il controllo sui flussi di capitali, da uno stato all'altro, che in questo periodo di crisi sembra aumentare senza sosta. Muri, barriere più o meno robuste, innalzati dai governi, in particolare dei paesi emergenti. L'obiettivo? Duplice: da un lato, selezionare i capitali; fare entrare solo i soldi che servono alla crescita. Dall'altro, sfuggire l'instabilità: evitare l'eccessivo apprezzamento della moneta o un'inflazione troppo alta. Cioè, i possibili effetti collaterali della medicina anti-crisi somministrata dai paesi industrializzati: il mare di liquidità unito a tassi d'interesse di fatto a zero.
L'«impossibile trinità»
Un mix, quest'ultimo, che rende d'attualità ciò che gli economisti chiamano l'«impossibile trinità»: controllare contemporaneamente prezzi al consumo e cambio valutario, mantenendo liberi i flussi di capitali transfrontalieri. Una magia difficile: l'emerging market potrebbe, per esempio, alzare i tassi in ottica anti-inflazione; ma con il costo del denaro in Occidente a zero, partirebbe la corsa ai suoi asset, facendone schizzare in orbita la moneta. L'equilibrismo insomma è complicato tanto che, alla fine, vari emergenti abbandonano la "trinità", per rifugiarsi nel proibizionismo finanziario.
Quali controlli
Una sbornia di capitali evitata, essenzialmente, in due modi: direttamente, imponendo il divieto delle transazioni; indirettamente, rendendole più onerose e difficoltose. Il Brasile, per esempio, ha scelto la seconda via: lo scorso ottobre la tassa per le transazioni dall'estero sui bond governativi è stata portata al 6%; quella sull'azionario, invece, resta al 2% per il retail e al 4% per l'istituzionale. Una stretta contro l'eccessivo inflow di capitali.
Un po' più a nord anche il Venezuela ha percorso la strada indiretta. Qui la finalità, però, è diversa: stabilizzare le entrate petrolifere messe in pericolo dal dollaro debole. Come? Attraverso un sistema multiplo di cambio. Due le parità previste sul biglietto verde: una, più bassa, per le attività "primarie" quali l'alimentare; l'altra più alta (4,3 bolivar per dollaro) nei prodotti petrolchimici. «A causa del calo del prezzo del barile – spiega Roberto Mialich, esperto valutario di UniCredit – le entrate legate all'oro nero sono scese. Per mantenerle elevate, e non destabilizzare l'economia, è stata realizzata una svalutazione della valuta locale».
Già la svalutazione. Quella sul dollaro, implicitamente voluta dalla Fed, è tra le maggiori cause della tensione globale, soprattutto con la Cina. Pechino, si sa, ricorre a piene mani al capital control: lo yuan, per esempio, ha un cambio (quasi) fisso sul dollaro (banda d'oscillazione +/-0,5% giornaliera). Washington, convinta della sottovalutazione della moneta, vorrebbe la sua piena convertibilità. Ma Pechino fa orecchie da mercante: il balzo del cross-rate significherebbe il crollo del suo export.
«Questo tipo di controllo è un errore – dice Ila Patanaik, dal suo ufficio del National Institute of public finance a Nuova Delhi -. È la flessibilità che permette un graduale adeguamento del mercato alle condizioni macroeconomiche. L'India, che pure limita gli acquisti dall'estero sui bond, ne è l'esempio». «In realtà - ribatte Carlo Altomonte, docente di politica economica alla Bocconi - quello dello yuan è un non-problema». In che senso? «I cinesi hanno nel loro Dna la pianificazione: Pechino sta abbandonando il solo focus sull'export, per sviluppare il mercato interno. È loro interesse rivalutare lo yuan, ma lo faranno con i loro tempi. All'attuale tasso di apprezzamento del 7% annuo, il rialzo del 35%, da molti auspicato, sarà raggiunto in un quinquennio».
Efficacia da dimostrare
Al di là della querelle sino-americana, però, una domanda è d'obbligo: queste misure sono efficaci? «Si tratta di palliativi - risponde Altomonte -. Riducono la volatilità solo nel breve. Il loro obiettivo non è di bloccare gli investimenti dall'estero, bensì di respingere la speculazione e far entrare denari che servono alle imprese locali». «Difficile dare una risposta in generale - gli fa eco Gabriele Vedani, managing director di Forex capital markets Italia -. Nel caso del Brasile, per esempio, l'effetto annuncio ha fatto scendere il real. Poi, visto che le stime di crescita del paese sono maggiori rispetto alla tassa imposta, i capitali sono tornati. Così, complice la ripresa del dollaro, la divisa carioca è risalita. Ma ogni storia è un caso a sé». Peraltro, proprio dalle banche centrali arriva la prova che spesso le mosse sul valutario sono inefficaci. La riserva giapponese, per bloccare il calo dello yen, è intervenuta vendendo la divisa nipponica e comprando dollari. Uno sforzo inutile. Azioni simili hanno efficacia se vanno nella stessa direzione in cui si muove la quotazione: ne ampliano gli effetti. L'opporsi è da titani.
© RIPRODUZIONE RISERVATA



La mappa delle barriere sugli investimenti transfrontalieri

STATI UNITI

No a tasse e divieti diretti su flussi di capitale. Limiti indiretti a investimenti su business strategici: tlc, nucleare, miniere. Le piccole finanziarie straniere non hanno agevolazioni fiscali nel lancio di loro prodotti. Varie limitazioni a livello dei singoli stati

GIAPPPONE

Non previste tasse sui flussi di capitale. Tuttavia, limiti alle partecipazioni di stranieri in società di settori strategici: per esempio, nella comunicazione mobile non può essere superato il 33%. Stesso tetto per le società ferroviarie. Più basso (20%) nei media

BRASILE

Prevista una tassazione sulle transazioni finanziarie:l'Iof. Previsto un prelievo del 6% sugli acquisti esteri di bond governativi e sui prodotti derivati. Sull'equity il balzello è del 4% per i fondi stranieri ( 2% sugli investitori individuali).

VENEZUELA

Previsto un sistema di cambio multiplo. Il bolivar ha due parità sul dollaro: una, più bassa, è per le materie "prioritarie" (per esempio l'alimentare); l'altra, più alta, è applicata ai prodotti petrolchimici. La finalità è stabilizzare le rimesse petrolifere

INDIA

Per prestiti a imprese indiane, in valuta straniera, richiesto ok della Reserve bank of India. No a prestiti di breve periodo. Implicito divieto che questi debiti superino 20 mld $ l'anno. Tetto massimo (10 mld $) per acquisti di istituzionali esteri su governativi

PERU'

Tassa su plusvalenze in Borsa per i non residenti (30% se operatività con broker peruviano; 5% se straniero). Imposta del 30% su plusvalenze degli stranieri che operano su future con scadenza minore di 60 giorni. Limitazioni all'esposizione delle banche sul valutario.

CINA

Lo yuan è legato a un paniere di valute di cui fa parte il dollaro. Fissata banda d'oscillazione (+/- 0,5%) su divisa verde. A termine seduta, il valore di chiusura è usato come nuova parità .Su Borse locali, di fatto, opera solo l'istituzionale considerato qualificato.

TAILANDIA

Ritenuta alla fonte del 15% su capital gain e interessi realizzati da stranieri su bond governativi o di enti parastatali. Pressing su finanziarie per non cedere cambiali a stranieri. Meno restrizioni sui prestiti a creditori esteri; no limiti a investimenti verso l'estero

GRAN BRETAGNA

Non sono previste tasse o prelievi sui flussi di capitale. Tuttavia, esistono limiti a investimenti diretti. Per esempio: nell' acquisizione di quote in compagnie aree europee o nell'acquisto di licenze del business radio-televisivo.

CANADA

Non previste tasse o prelievi sui flussi di capitale. Però, è tra i paesi dell'Ocse con più "dighe" verso investimenti stranieri in proprie società: nelle miniere d'uranio il 51% deve essere in mano canadese; nelle tlc il tetto ai foreign investors è del 20%.

ARGENTINA

Il governo di Buenos Aires, dal 2005, su determinati investimenti dall'estero, richiede una durata minima di 12 mesi e una "riserva" del 30% su un deposito locale non fruttifero. La finalità è la restrizione della fuoriuscita di capitali.

COLOMBIA

Richiesta durata minima di 12 mesi su investimenti diretti stranieri, più una "riserva" del 40% su un deposito locale non fruttifero. Il governo ha deciso di "prelevare" 1,4 mld di $ di dividendi da Ecopetrol per allentare la pressione sul cambo valutario.

TURCHIA

Nel 2010 sono state abolite diverse tasse sugli investimenti stranieri: rimane la ritenuta alla fonte del 10% sul capital gain per il retail senza residenza. In realtà è poco significativa. L'obiettivo è sostenere i liberi flussi di capitali.

COREA

Esposizione netta sul mercato valutario per banche locali non oltre il 50% del patrimonio; il tetto per le divisioni locali di istituti stranieri è del 250%. Eliminata la ritenuta alla fonte su interessi, la tassa sui capital gain e sulle transazioni finanziarie

VIETNAM

È prevista una tassa a carico degli investitori esteri, attivi nel territorio vietnamita. Sui loro profitti che sono fatti "uscire" dal paese è stabilito un prelievo. L'obiettivo è di contrastare la speculazione mordi e fuggi e di attrarre capitali stranieri.

INDONESIA

Imposto un tempo minimo di "mantenimento" (1 mese) sui certificati emessi dalla Banca centrale. Introdotti nuovi certificati con durate maggiori (6-9 mesi) per contrastare la speculazione mordi e fuggi. Sostegno a investimenti di lungo periodo.

22/11/2010
ADV