Roma, 07 nov. - Come schegge di shrapnel, i brevi paragrafi nei quali brilla a centinaia di colpi l'ultimo libro di Geminello Alvi ("Ilcapitalismo - verso l'ideale cinese", Marsilio ed. 335 p., 21 euro)investono chi legge con molteplicità di spunti e di richiami. Tesi eantitesi che sembrerebbero provocatorie se sin dal tono stessodell'esposizione non se ne librasse una ancorché complessa assertività.Ecco dunque il capitalismo occidentale che speditos'approssima, preda della sua stessa febbre, verso i modelliomologanti standardizzati dai cinesi. Alvi ritrova una chiaroveggenteenunciazione di John Stuart Mill dall''On Liberty' - "dimenticato amemoria" nei libri di sociologia - per istigare il dubbio "se non siaquesta fase del capitalismo a omologarci all'isterica piattezza cinese".
Non è però soltanto questo: ci sono numeri e analisi aggiornati fino agli accadimenti d'oggi di cui l'autore si serve per disvelare il "camuffamento d'Oriente", cui ricorre il dispotismo di Pechino(e Wittfogel, da Alvi, è naturalmente citato) assumendo anche lemaschere delle corporations e delle banche occidentali per espandere edisporre del proprio potere. Spietato, Alvi sostiene: "I cinesi hannoil capitalismo, ma non il capitale, sono cioè possedutidall'invidia di massa che fa loro reclamare nelle città il superfluo, eperò non hanno l'io, la libera esistenza". Non suo, si puntualizza, èil copyright della teoria, ma del filosofo gesuita Teilhard deChardin, il quale proponeva in una lettera del 1927 l'ipotesi deicinesi quali "primitivi arrestati, degli 'infantili' la cui stoffaantropologica sarebbe inferiore alla nostra". Delirio di paleontologo,se assunto alla lettera. Eppure lo scienziato francese parve (e pare)realistico allorché aggiungeva che tra gli Han "tutto ciò che tende aelevarsi viene immediatamente riportato a zero. Tutto ciò che vive alungo in mezzo a loro è psicologicamente sminuito, snervato".
Se non fosse altrettanto spietato con l'emisfero occidentale, imperdonabile risulterebbe tuttavia il libro di Alvi. Ma l'autore sirivela, fortuna del recensore, non meno severo verso il capitalismoamericano e nei confronti di un'Europa declinante - o declinata - incui si gioca la tragica "commedia dell'euro" amministrata da Franciae Germania. Chi ricorda di avere registrato Alvi, già diversi anniorsono, sulle stesse posizioni dovrà riconoscergli perlomeno coerenzae un'aliquota di quella certa preveggenza che tanto gli fa amare Mill.
Quando cita l'assioma: "Gli stessi principi, una stessa moneta conparità diverse, le stesse leggi", Alvi non riferisce una frase diBarroso né di Van Rompuy. E' bensì Napoleone. E perciò, ne concludeche "non il liberismo, ma un errore atavico, quindi, ha covato l'euro".
Quel che muove in verità l'economista è l'impulso éliotiano di puntellare le rovine sulla terra desolata del capitalismoattuale, che tradisce il capitale, appiattisce le individualità erestringe l'io. Che produce stati alterati di coscienza catturando nelragno del web, che si riproduce nell'invidia collettiva motrice dibisogni fittizi e consumi compulsivi. Non ci sono solo il geniale ma"svenevole" Keynes, o Greenspan, "scriteriato pianificatore in stilesovietico della stampa di denaro statale". C'è pure il vocabolarioesagitato di 'Vanity Fair', c'è il patetico Pip dickensiano con lerelative "great expectations" ingenue e luciferine a far da cemento alcostrutto di Alvi. Che ha forse non a caso, in questa ultima prova,addensato e contratto il passo della prosa, ne ha dismesso le trascorseriuscite tentazioni di eleganza per accentuare i tentativi dellasuggestione. E così difatti - forse solo così - dal pericardio, puòessere assorbito un libro ove si smontano con raziocinio i criteristatistici fondanti le notizie economiche, primo fra tutti il Pil,ordigno artificioso e recente che pure è per convenzione e convinzionediffusa misura di tutte le cose, Graal degli uffici studi, diragionieri dello stato e ministri molto pensosi. Graal parimentigiornalistico e profano assai, che custodisce "la noia ossessa diun'umanità in monomania economica". ("Il Pil e il Pnl - desacralizza Alvi - sono strumento statistico di omologazionedi quanto non è prodotto per il mercato, come i costi dello stato odell'istruzione o della sanità, ma viene finto tale. E' il riflessomentale quotidiano e indotto che fa considerare normale che primafunzione dello stato o della cultura sia produrre valore").
C'è tuttavia - e non per mero dovere d'ufficio - una 'pars construens' che suggella il libro e lo distingue da un testo diseppure interessante invettiva intellettuale. Meno numeroso perpagine, ma più essenziale, è l'appello di Alvi per una economia"omerica", quella della minore crescita e della più giustadistribuzione. L'appello a un ritorno al logos inteso letteralmentecome "parola detta", "non sintetizzata elettronicamente, senza glistati alterati di tv e di internet o l'uso dei microfoni,l'espressione devota: il free speech che ora abbisogna".
E' un ordine economico meno fondato sugli Stati e piùorientato alle istituzioni tradizionali, dalla famiglia alle comunitàintermedie, che riconosca l'atto epico del "dono" come "solidarietàcosciente e premeditata", prevalente sulla burocrazia pubblica. E' larivolta (o meglio la revulsione) dell'io contro l'omologazione che perverte ogni forma.
Se non fosse economista ma poeta, Alvi avrebbe dipanato la sua tesiin versi simili a quelli di un altro steineriano (ché è questadottrina senza dubbio intrinseca al libro né l'autore lo cela).Stiamo rammemorando Arturo Onofri, il quale titolò "Vincere il Drago!"una certa sua raccolta: "E' carità di noi, esseri ignari,/vivere interra offrendo agli alti cieli/le lacrime e i sudori necessari;/maonnipotenza d'uomo, nella vita,/è fede che a noi - spiriti - sisveli/in ogni affanno una virtù scolpita". Ad altro Drago, più chealla Cina fisica, riportano alla fine questi versi di Onofri, quellerighe di Alvi.
di Francesco Palmieri
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