Freno europeo per Cina e India
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Freno europeo per Cina e India

Freno europeo per Cina e India

Emergenti. Pechino e New Delhi temono le incognite nel Vecchio continente, ma entro nove anni prevedono 3.500 nuove imprese miliardarie «tutte asiatiche»
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DAVOS. Dal nostro inviato
Entro nove anni nasceranno 3.500 nuove imprese miliardarie: «Saranno tutte asiatiche», dice Sinha Janmejaya, presidente di Boston Consulting Group per il grande continente. Giusto un dato in più per ricordarci che il futuro è a Oriente. Di qua il grigiore della crisi, di là la crescita tumultuosa: più dell'8% la Cina, oltre il 7 l'India.
Ma è possibile che tutto continui così, come se in Europa non stesse accadendo niente? «Certo che no, se la crisi europea si aggrava è impossibile non essere contagiati. Niente è impossibile nei prossimi tre anni: potremmo crescere solo del 6%», spiega Rahul Bajaj, allargando le braccia come stesse descrivendo un incubo. Bajaj è probabilmente il più famoso capitano dell'industria familiare indiana. I suoi colleghi europei firmerebbero al buio per quel tasso di crescita. «Per noi un punto è il disastro: il Paese non può finanziare il suo piano d'inclusione sociale e il Governo non fa le riforme», aggiunge Bajaj.
Secondo George Soros, «il potere cinese sta preparando la sua opinione pubblica all'idea che non si possa continuare a mantenere per sempre una crescita dell'8%. La diminuzione della domanda europea mette in discussione un modello economico, quello dell'export». E l'India, con un'economia da 1.700 miliardi che nel 2020 sarà di 7mila e nel 2050, sempre secondo Boston Consulting, diventerà la prima al mondo? «Noi non abbiamo gli stessi timori, il nostro sistema è fondato sui consumi interni, l'80% della nostra economia. Sì, abbiamo dei problemi ma vedo già segni di ripresa dappertutto», dice Adi Godrej che a marzo, dopo la presentazione del bilancio dello Stato, diventerà presidente di Cii, la Confederazione dell'industria privata. Forse l'ottimismo, diverso dal pessimismo di Bajaj, viene dall'attività di Godrej: è il presidente di un gigantesco conglomerato familiare la cui attività principale sono i beni di consumo che nel caso di Godrej copre tutta la gamma sociale: dagli slum all'India più ricca. «Noi indiani ci definiamo 10 più 10: cresciamo di 10 volte ogni 10 anni. Non dobbiamo farci condizionare dai cicli economici che quando sono negativi, per noi sono sempre molto brevi».
L'ottimismo di Adi Godrej è anche un atteggiamento mentale: da almeno 20 anni quando scambiano pareri con gli stranieri, gli indiani del business e dei governi, tendono a dare sempre una visione fiduciosa. "Shining India", il Paese splendente nella sua crescita. Qualcosa che gli investitori stranieri faticano a condividere dopo la vicenda di Wal-Mart e Tesco.
A novembre era stata annunciata l'apertura di una catena di supermercati che avrebbero rivoluzionato il sistema distributivo indiano del bazar e dei 5 milioni e mezzo di piccoli commercianti. Poche settimane dopo il primo ministro Manmohan Singh ha annullato il contratto. Mamata Banerjee, la chief minister, cioè il premier del West Bengal, si era opposta. Nel Parlamento di Delhi e nel Governo centrale il partito della potente Mamata è un alleato essenziale del Congress. E Singh ha dovuto cedere.
«Sì, in India votiamo molto spesso e il sistema politico è complesso», commenta Godrej. «È per questo che spesso le riforme si fermano». Un segno di un economia che fatica a produrre la ricchezza necessaria per includere i 400 milioni di svantaggiati, è proprio la paralisi delle riforme: il Governo che non distribuisce, non ha più il potere di cambiare. E da mesi in Parlamento non passa una sola delle molte riforme all'ordine del giorno. «Sono tante quelle che aspettiamo: ma per noi una è essenziale», dice Godrej. «Quella delle tasse indirette, la vostra Iva: da sola vale un punto di Pil. Per questo non sono così preoccupato da un contagio europeo: se ci lasciate in pace, da soli possiamo crescere del 10 per cento. Ne abbiamo i mezzi».
Anche Barry Eichenbergreen dell'Università di Berkley pensa che l'India abbia il potenziale per crescere stabilmente dell'8% «non per qualche anno ma per decenni». Ma c'è la crisi europea e diversamente dalla Cina, se le cose peggiorassero l'India non ha un piano B. «Per tenere alto il tasso di crescita, i cinesi possono passare dal l'export al mercato interno e a massicci investimenti nelle infrastrutture perché comunque hanno un surplus». L'India ha un deficit pesante, il 5% del Pil, e non potrebbe investire in infrastrutture; il mercato interno lo sta già sfruttando e il sistema politico caotico di natura, in tempi di crisi viene paralizzato dagli interessi ideologici, locali o di casta. C'è un'altra importante differenza con la Cina: in India ci sono 750 milioni di elettori. Quando devi rendere conto a loro può diventare un'impresa caotica.
Sarebbe quasi consigliabile il modello a tempo italiano: un paio d'anni di governo tecnico. «Manmohan Singh è già un tecnocrate, viene anche lui dalla Banca centrale», risponde Adi Godrej. «Ma ci sono gli altri ministri e poi c'è l'opposizione e infine i partiti locali». C'è anche Sonia Gandhi, la vera leader del Congress, che ha preso un atteggiamento molto critico sul modello di crescita indiano, rendendo più difficile la vita al suo primo ministro riformista. «Sonia ha una visione più socialista ma non è contraria alle riforme: lei vuole che la crescita sia più inclusiva, non è contro la crescita».
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29/01/2012
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