Ecco gli errori da non fare in Cina
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Ecco gli errori da non fare in Cina

Ecco gli errori da non fare in Cina

Internazionalizzazione. I consigli di Giulio Gallazzi, fondatore e presidente della società di consulenza Npv
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Gli italiani parlano molto – e spesso in ritardo – di Cina. Ma quali modalità di penetrazione ed espansione attuano per portare le loro imprese nella Repubblica Popolare? Con quali mezzi, con quali strategie, con quali conoscenze delle consuetudini commerciali e della burocrazia dell'ex Celeste Impero?
A sentire importanti società internazionali di consulenza, le risposte non sono confortanti. Soprattutto nella moda, settore portante nel nostro paese e amatissimo dai cinesi facoltosi, che vagheggiano lo stile e l'allure dei grossi brand. Ora, con la nascita dei primi multimarca, si aprono reali opportunità di ingresso anche per le piccole medie imprese che vantano prodotti di valore. Ma le nostre aziende arrivano con una visione piuttosto confusa del mercato, delle istituzioni, delle reali opportunità esistenti. Il falso mito diffuso è che si trovino subito partnerdisposti ad aprire negozi, a investire sull'unghia decine di migliaia di euro.
Ma non è così. A spiegare come realmente funziona nell'unico Paese comunista che ha aperto al capitalismo è Giulio Gallazzi, ex manager di un'azienda statunitense e partner di una primaria società di consulting italiana prima di diventare fondatore e presidente di Npv, gruppo di advisoring con sede a Milano, Lugano, Londra, Shanghai e Hong Kong. Obiettivo, affiancare le imprese e accompagnarle all'internazionalizzazione con tutti i mezzi possibili: engineering, finanza, strategia operativa, relazioni istituzionali, M&A, azioni di lobbying. Un gruppo che lavora ad altissimo livello e che, in Cina, si avvale di manager formati nelle migliori università e forgiati sul campo. «Alcuni sono ancora convinti che la Cina sia un paese in via di sviluppo – esordisce Gallazzi – Invece ha una cultura millenaria, conosce profondamente la situazione degli occidentali, ha proprie consuetudini commerciali, burocratiche, comportamentali, che se non rispettate pregiudicano qualsiasi business». Di errori se ne fanno tanti. Come arrivare e frequentare solo posti europei, vedendo i cinesi solo durante il giorno nella convinzione di aver fatto business. «O aprendo un ufficio e mettendoci degli italiani. In Cina sono i cinesi a fare business, bisogna mantenere rapporti con le loro istituzioni, parlare correttamente cinese mandarino, fare follow up costanti».
Inutile, presentarsi con biglietti da visita scritti in italiano o inglese. Controproducente, mantenere comportamenti italici, come la battuta pronta o la convinzione di intavolare trattative a cena. «Il loro humour è differente, la gestualità cambia, difficilmente l'interlocutore lascia trapelare accordo o disaccordo». E il biglietto da visita va dato a due mani, mai "lanciato" sul tavolo. «Deve essere scritto in cinese e quando lo si riceve bisogna leggerlo, non metterlo in tasca e conservarlo in bella vista». A cena? Non si va alle 20.30, ma almeno un'ora e mezza prima. «E ad alto livello si usa portare un presente. Mai fare battute con chi non si conosce bene, vige un formalismo che a noi è sconosciuto». Giudicare dall'abbigliamento il peso di chi ci sta di fronte è rischioso.
«Se si prescinde dalle alte cariche politiche e istituzionali, dove resiste la cultura dell'uniforme, di solito anche personaggi di caratura arrivano in abiti informali e non necessariamente raffinati». E bisogna pensare che ci si trova davanti a persone informate sulla realtà occidentale. «Sanno che i nostri Paesi faticano a crescere, non sono interessati a fare business in Europa ma viceversa a sviluppare i mercati asiatici e considerano solo crescite a due cifre».
Inoltre, la possibilità di penetrazione è riservata a chi porta contenuto. «Con una capacità produttiva come la loro, entra solo chi offre stile, tecnologia, sostanza vera. Prodotti normali sono in grado di farseli da sé». Il falso mito che l'azienda italiana trovi facilmente investitori sulla fiducia va smontato. «Potenziali partner si trovano, ma solo dopo che l'azienda ha dimostrato di poter investire qualcosa, di fare i primi passi». Il che significa costruire uno status, una cornice creata dal marketing. «Solo i grandi brand, di valenza mondiale, possono prescindere da tutto ciò, perché la loro fama li precede. Gli altri devono investire qualcosa, a partire da un minimo di 50mila euro». Tanti, sono caduti preda di furbi affaristi che promettevano meraviglie. «Bisogna diffidare da chi propone di accogliere il prodotto e di svilupparlo tout court. Di solito lo copia e ne brucia l'espansione. Bisogna sempre verificare chi si ha davanti, possibilmente recarsi da lui in azienda e vedere con i propri occhi di che realtà si tratta».
Per un marchio del fashion, farsi mettere in un mall è una lama a doppio taglio: «Ce ne sono di enormi con negozi tutti uguali, come scatole, dove un marchio si perde senza valorizzare la propria identità, si confonde tra gli altri». Una volta trovato il contatto giusto, il follow up è sostanziale. «Mandare una mail in inglese dall'Italia ha poca presa. Bisogna seguirli, avere una base in loco, tenere rapporti. In più, gli italiani compiono l'errore di pensare alla Cina come a un unicum. Qui si ragiona per città, per province – conclude Gallazzi –. Npv, ad esempio, è molto forte a Shanghai, Pechino, Nanchino, Cheng Dhou. Chiunque dica di coprire tutta la Cina in modo omogeneo, non sta rappresentando una situazione verosimile».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

10/01/2012
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