Dalla Cina la febbre dei prezzi
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Dalla Cina la febbre dei prezzi

Dalla Cina la febbre dei prezzi

INFLAZIONE
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La Cina stringe ancora. È la terza volta, da ottobre, che la Banca del Popolo alza i tassi d'interesse per evitare che l'economia si surriscaldi. E non sarà l'ultima, anche se Pechino potrebbe usare anche altri strumenti di politica monetaria, ai nostri occhi "minori", ma più efficaci nella realtà cinese: è il livello delle riserve obbligatorie, insieme ai limiti al credito, spiega Zhang Zhiming di Hsbc, a garantire i migliori risultati.
Pechino riuscirà davvero a raffreddare l'economia? La domanda è importante, perché la Cina continua a esportare di tutto, e ora anche l'inflazione. Quel rialzo dei tassi pone quindi - a noi occidentali - una questione che ci riguarda direttamente: verso dove stiamo andando? Lo scenario inflazionistico è un rischio anche per i paesi avanzati, ancora alle prese con gli ultimi drammatici effetti della recessione? Finora la questione era puramente teorica. L'eccesso di liquidità delle politiche anti-crisi non può, nel lungo periodo, che aumentare i prezzi: prima degli asset, poi - forse, qui le opinioni tra economisti accademici e analisti di mercato sono spesso divergenti - delle materie prime, infine dei prodotti al consumo.
Non mancano fattori di riequilibrio: la velocità degli scambi, rallentata, compensa l'aumento della quantità di moneta; e il sistema è dinamico. E dal momento che gli effetti della liquidità sui prezzi sono lenti, forse è possibile drenare rapidamente la base monetaria ed evitare traumi sulla crescita e sull'inflazione. La Svezia, nel suo piccolo, ci sta riuscendo, con poche sbavature.
Il rischio però c'è. Soprattutto adesso che la questione non è più soltanto teorica. L'aumento di alimentari e commodity, alimentato proprio da una Cina peraltro sostenuta anche dalle strategie ultraespansive occidentali, sta inquietando le banche centrali dei paesi ricchi. Anche se questi prezzi non sono direttamente gestibili dalla politica monetaria. Jean-Claude Trichet ha avvertito già a gennaio della possibilità di "effetti ritardati" (second round effects) di questi rialzi, soprattutto se i salari dovessero lanciarsi al loro inseguimento. Come sta già avvenendo, per esempio, in Spagna, dove a gennaio gli stipendi sono saliti del 3%, in linea con l'inflazione ma non con la produttività.
L'avvertimento del presidente della Banca centrale europea è stato forse un po' sopravvalutato dai mercati che - a differenza degli analisti - hanno immaginato un rialzo davvero imminente, ma il tema è subito diventato di stretta attualità. Non solo in Eurolandia: se la Fed continua a dire che l'inflazione "di riferimento" è persino troppo bassa, le ultime dichiarazioni di alcuni governatori sembrano preparare una direzione nuova.
Richard Fisher, della Fed di Dallas, ha detto che insisterà per una stretta «ai primi segnali che le pressioni inflazionistiche si stanno muovendo oltre le materie prime verso i prezzi al consumo», riecheggiando in sostanza la posizione di Trichet; mentre Jeffrey Lacker della Fed di Richmond, più rigido, continua a parlare di rischi significativi di un surriscaldamento del costo della vita.
Sono i dati però a parlare. L'inflazione complessiva è in rialzo: +2,4% annuo tra ottobre e dicembre l'indice Pce. La disinflazione è finita, spiega allora il team di analisti della Société Générale research, e presto non ci sarà più traccia dello spettro contro cui la Fed afferma di combattere con la sua politica non convenzionale: la deflazione. «I rischi sono orientati al rialzo», aggiungono gli analisti che, pur riconoscendo che il costo della vita americano ripartirà solo lentamente, avvertono che la stessa politica monetaria sta dando il suo contributo alle pressioni inflazionistiche. La Banca centrale di Washington non è solo disattenta, per scelta esplicita, ai prezzi di energia e alimentari ma tende a considerarsi isolata dagli effetti internazionali. E se è vero che i prezzi all'import si trasmettono all'economia americana con un ritardo che può durare fino a un anno e mezzo, è anche vero che l'inflazione cinese è ormai sempre più spinta dalla domanda e non dai costi: è quindi più duratura e insidiosa.
È fondamentale allora capire quando ci sarà davvero la svolta, quando lo stimolo - necessario per evitare una recessione peggiore - si trasformerà da cura in malattia. È un compito delicato. Lanciare allarmi troppo presto è altrettanto sbagliato che ignorare i segnali troppo a lungo. Quanto accade alla Gran Bretagna dovrebbe far riflettere tutti: proprio mentre il premier David Cameron cade nel peggior populismo e asserisce che, in politica monetaria, bisogna cambiare tutto (e dare meno attenzione all'inflazione), la Bank of England (BoE) deve affrontare un'economia in contrazione e, insieme, un'inflazione al 3,7%, quasi il doppio del "tetto" del 2 per cento. È una situazione complicata non tanto perché richiede di compiere scelte difficili, ma perché impone di ben interpretare l'evoluzione dell'economia.
La BoE è ormai molto vulnerabile a errori di politica monetaria, argomenta così Nick Bate di Bank of America Merrill Lynch: nel momento attuale le decisioni giuste dipendono dall'andamento futuro - e non dalla situazione attuale - delle aspettative d'inflazione; e, purtroppo, «non si può conoscerle in anticipo». Un bel dilemma.
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10/02/2011
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