Che cosa sta succedendo tra Usa e Cina? Dal caso Google alle polemiche sull'apprezzamento dello yuan, dalla questione tibetana a quella di Taiwan, cronologia delle tre settimane che stanno infiammando le due sponde dell'Atlantico.
5 febbraio 2010: Il segretario del Tesoro americano Timothy Geithner getta acqua sul fuoco delle polemiche sull'apprezzamento dello yuan: ""Ritengo molto probabile che la Cina si muoverà verso un apprezzamento della sua valuta e penso che il governo cinese riconosca quanto sia importante anche per loro, quanto sia nel loro interesse. Secondo il segretario del Tesoro un riequilibrio dei tassi di cambio delle valute è una delle chiavi degli sforzi degli Stati Uniti per ricondurre l'economia mondiale sulla strada della crescita attraverso i consumi interni e non più grazie a "un modello basato su grossi investimenti e massicce esportazioni". Per fare ciò, conclude Geithner, "è necessario che gli esportatori americani riguadagnino le posizioni che hanno perso, e stiamo lavorando a fondo per incoraggiare questi cambiamenti".
04 febbraio 2010: Pechino risponde colpo su colpo anche sulla questione yuan: "Il valore dello yuan non è la principale ragione del nostro surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti,- dichiara il portavoce del ministero degli Esteri cinese Ma Zhaoxu - al momento il livello dello yuan è ragionevole e bilanciato. Accuse e pressioni non aiutano certo a risolvere il problema".
03 febbraio 2010: Un editoriale del China Daily, voce ufficiale del regime di Pechino, getta ulteriore benzina sul fuoco: "È patetico vedere come il presidente americano Barack Obama sia pronto a cedere a questioni di politica interna e incontrare il Dalai Lama" scrive Huang Xiangyang, columnist del quotidiano, che in queste occasioni dà voce al nazionalismo esasperato di Pechino. Huang, per la prima volta, mette nero su bianco le parole a cui in molti pensano da settimane: Guerra Fredda. "Questa politica americana di sostenere pubblicamente il Dalai Lama arriva direttamente dalla mentalità della Guerra Fredda, che per Washington coincide con l'utilizzo di ogni mezzo per contenere quelle che ritiene minacce in arrivo dalla Cina comunista. Ma i tempi sono cambiati, e questi politici di Washington gonfi d'ideologia che continuano in questo stanco rituale di incontri col Dalai Lama per sbandierare quelli che loro chiamano 'principi democratici basilari' non hanno capito che il terreno gli è ormai sfuggito da sotto i piedi. Come presidente della sola superpotenza esistente sul pianeta, Obama è libero di incontrare chi vuole nel suo paese; ma non ammanti questa farsa di alti propositi morali: noi la chiamiamo, semplicemente, l'audacia della vergogna". Più o meno nelle stesse ore Obama riapre il fronte dell'apprezzamento dello yuan all'incontro con i senatori del Partito Democratico: "L'approccio che stiamo sostenendo è di agire molto più duramente sul rispetto delle regole già esistenti, esercitando una pressione costante sulla Cina e su altri paesi per ottenere una reciprocità nell'apertura dei mercati. Una delle sfide con le quali dobbiamo confrontarci è quella dei tassi di cambio internazionali, per assicurarci che i prezzi dei nostri prodotti non vengano artificialmente gonfiati mentre quelli dei loro beni risultino invece artificialmente bassi".
01 febbraio 2010: La Casa Bianca annuncia che Barack Obama incontrerà il Dalai Lama nella prossima visita che il leader spirituale del buddhismo tibetano compierà negli Stati Uniti, a metà febbraio. Immediata la reazione di Pechino, per il quale il Dalai Lama è un pericoloso separatista che punta alla costruzione di un "Grande Tibet", staccato dal territorio cinese: "Un incontro di questo genere danneggerebbe seriamente la base politica delle relazioni tra Cina e Stati Uniti" dichiara Zhu Weiqun, viceministro dell'organo del Partito Comunista Cinese preposto alle relazioni con le minoranze etniche. "Se il leader statunitense sceglie di incontrare il Dalai Lama, questo gesto danneggerebbe la fiducia e la cooperazione tra i nostri due paesi - ha proseguito Zhu - e come potrà tutto questo essere di aiuto all'America nel superare la crisi economica in corso?"
30 gennaio 2010: Il Dragone contrattacca a muso duro sulla questione Taiwan: "La decisione degli Stati Uniti mette seriamente a rischio la sicurezza nazionale cinese e danneggia gli interessi vitali della Cina" dichiara il portavoce del ministero della Difesa Huang Xueping. "Il piano americano creerà seri problemi alle relazioni tra i due Paesi e tra le loro Forze armate e danneggerà la situazione generale della cooperazione tra Stati Uniti e Cina e la pace e la stabilità negli Stretti di Taiwan". Pechino si riserva il diritto di imporre sanzioni alle aziende USA che venderanno armi a Taiwan e di sospendere gli scambi e le relazioni sul piano militare con Washington.
29 gennaio 2010: Il Pentagono notifica al Congresso la richiesta di autorizzazione per la vendita di materiale bellico per 6.4 miliardi di dollari all'isola di Taiwan: è la prima fornitura militare dell'amministrazione Obama a quella che Pechino percepisce come una "provincia ribelle", da ricondurre sotto l'ala della madrepatria anche con la forza, se necessario.
28 gennaio 2010: Hillary Clinton definisce "una conversazione molto aperta e onesta" il colloquio avuto a Londra con il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi. "Ho sollevato la questione Google e quella della libertà sul web - dichiara Clinton - e, ovviamente, la Cina ritiene di essere molto più aperta di quanto non le venga dato credito in materia". Fonti governative USA fanno sapere che il ministro degli Esteri cinese non ha risposto alla richiesta americana di un'indagine sul caso Google. Nel corso del World Economic Forum di Davos Twitter rende nota, per bocca dell'amministratore delegato e cofondatore Evan Williams, l'intenzione di mettere a punto un sistema per eludere la censura praticata su internet dalla Cina e da altri paesi.
24 gennaio 2010: Un editoriale del China Daily, quotidiano ufficiale del Partito Comunista Cinese, accusa Washington di avere creato una "brigata di hacker" che, attraverso social network come Twitter e YouTube, sarebbe colpevole di avere fomentato i disordini in Iran successivi alle scorse elezioni. "Le agenzie di intelligence USA possono completamente controllare, seguire e cancellare online le informazioni contrarie all'interesse nazionale americano – si legge nell'editoriale - ed è quindi ridicolo, in questa situazione, che gli Stati Uniti d'America chiedano ad altri paesi la libera circolazione delle informazioni sul web". Twitter lancia una manifestazione online contro "la grande muraglia della censura cinese".
22 gennaio 2010: Arriva un duro comunicato del portavoce del ministero degli Esteri cinese Ma Zhaoxu: "Gli Stati Uniti hanno criticato le politiche cinesi di amministrazione della rete e insinuato che la Cina restringererebbe la libertà su internet; queste affermazioni sono contrarie alla verità dei fatti e dannose per la relazioni tra Cina e USA". "Chiediamo agli Stati Uniti di rispettare i fatti e cessare la strumentalizzazione della cosiddetta libertà sul web per rivolgere accuse infondate nei confronti della Cina".
21 gennaio 2010: Il segretario di Stato americano Hillary Clinton sceglie il Newseum, il museo della libertà di stampa di Washington, per tenere un discorso sulla questione. Clinton parafrasa lo storico discorso di Winston Churchill che sancì la definitiva contrapposizione tra il blocco occidentale e quello sovietico, e dichiara che "una nuova cortina dell'informazione sta calando su larga parte del mondo". Tra i paesi citati ci sono Iran, Cina, Indonesia e Tunisia. "Noi siamo fermamente per un unico internet, dove l'intera umanità abbia eguale accesso al sapere e alle idee - ha detto Clinton - e chiediamo l'intervento della comunità globale contro chi promuove attacchi cul cyberspazio". Secondo il segretario di Stato americano "in un mondo interconnesso un attacco ai network di un paese è un attacco a tutti"; Hillary Clinton chiama poi in causa direttamente la Cina, chiedendo alle autorità di Pechino di condurre "un'indagine approfondita sulle intrusioni nel cyberspazio" denunciate da Google, invitando alla "trasparenza nelle inchieste e nelle conclusioni". In molti commentano che si tratta dell'inizio di una "Guerra Fredda 2.0".
20 gennaio 2010: Baidu, il più importante motore di ricerca cinese, cita in giudizio per negligenza il provider americano Register.com davanti a un tribunale di New York. Gli statunitensi sarebbero colpevoli di scarsa vigilanza in merito a una serie di atti di pirateria informatica risalenti al 12 gennaio scorso: "Quel giorno il nostro Domain Name Server, che si trova negli Stati Uniti, è stato oggetto di un attacco. Il software del nostro dominio è stato illegalmente alterato a causa di un'enorme negligenza da parte di Register.com- dichiara il portavoce di Baidu Victor Tseng -,negligenza che ha provocato un'interruzione dei nostri servizi per diverse ore, e per la quale chiederemo un risarcimento dei danni alla compagnia americana". Gli hacker responsabili dell'attacco a Baidu si nascondono dietro la sigla "Iranian Cyber Army", e avevano già rivendicato il blocco del sito di microblogging Twitter, avvenuto nel dicembre del 2009.
19 gennaio 2010: Arriva il primo commento diretto sulla vicenda da parte del governo cinese: il portavoce del ministero degli Esteri Ma Zhaoxu dichiara che Google non può chiedere di essere trattato diversamente dalle altre compagnie straniere che operano in Cina. "Le compagnie straniere attive in Cina devono osservare le leggi e i regolamenti cinesi, rispettare la clientela cinese e le tradizioni, assumendosi le relative responsabilità sociali. Ovviamente, Google non fa eccezione". Google annulla la presentazione del "Gphone", prevista a Pechino per il giorno successivo, senza fornire commenti ufficiali né una data alternativa. Il il responsabile della sicurezza nazionale indiana, M.K. Narayanan, dichiara al Times di Londra che anche il suo computer e quelli di altri funzionari di alto livello di Nuova Delhi sarebbero stati tra i bersagli dell'attacco degli hacker provenienti dalla Grande Muraglia. Ma Zhaoxu ha rimandato al mittente, sostenendo che la Cina è tra "le prime vittime al mondo di atti di pirateria informatica". I colloqui tra Google e governo cinese proseguono a porte chiuse.
18 gennaio 2010: Il Foreign Correspondent's Club of China comunica che tra le caselle email violate ci sarebbero anche quelle di alcuni giornalisti stranieri. Pechino difende difende il suo diritto di "punire chi usa internet per sovvertire l'unità nazionale, diffondere l'odio etnico e pubblicare contenuti pornografici, violenti o terroristici, tutte cose che non hanno nulla a che vedere con la cosiddetta restrizione della libertà su internet.
16 gennaio 2010: Alibaba.com, gigante del commercio online in Cina, tira le orecchie al suo azionista Yahoo!, definendo "avventato" l'appoggio di quest'ultimo alle posizioni manifestate da Google. L'ultimo report di China Internet Network Information Center conferma che la Cina è il primo paese al mondo per navigatori web: nel 2009 gli internauti cinesi hanno toccato quota 384 milioni, un aumento del 28.9% rispetto all'anno precedente".
14 gennaio 2010: Il quotidiano ufficiale China Daily bolla la minaccia di Google come una "strategia per mettere sotto pressione il governo cinese". La portavoce del ministero degli Esteri cinese Jiang Yu dichiara che "in Cina internet è aperta, il governo incoraggia lo sviluppo della rete e le compagnie straniere che forniscono servizi internet sul web cinese sono le benvenute, purché rispettino la legge. La Cina, inoltre, vieta qualsiasi atto di pirateria informatica". Il segretario al Commercio USA Gary Locke ribatte che "i recenti atti di pirateria informatica che Google attribuisce alla Cina creano problemi tanto al governo USA che alle corporation americane che lavorano sulla rete cinese, ma dovrebbero costituire un problema anche per il governo cinese. Invitiamo la Cina a lavorare con Google e con le altre compagnie per ristabilire un clima favorevole al business". Yahoo! si schiera al fianco di Google.
13 gennaio 2010: Google dichiara di essere pronto ad abbandonare la Cina e a chiudere Google.Cn, la sua versione cinese. Il colosso del web lamenta un "attacco informatico altamente sofisticato" che avrebbe avuto origine dalla Cina e avrebbe colpito almeno 20 compagnie (in seguito diventeranno "almeno 33") attive in settori come finanza, media, chimica, tecnologia e internet. Il risultato degli atti di pirateria informatica sarebbe stato non solo il furto di consistenti parti di know-how, ma anche l'intrusione nelle caselle email di alcuni dissidenti cinesi. "Questi attacchi, combinati con tentativi dell'ultimo anno di restringere ulteriormente la libertà di parola sul web, ci hanno portato alla conclusione che potremmo rivedere le nostre operazioni in Cina. Abbiamo deciso inoltre che non intendiamo continuare a censurare i nostri risultati su Google.Cn, – si legge nel comunicato ufficiale – e quindi nelle prossime settimane discuteremo col governo cinese le basi sulle quali gestire un motore di ricerca privo di filtri nel rispetto della legge. Riconosciamo che questo potrebbe significare anche la chiusura di Google.Cn e dei nostri uffici in Cina".
Antonio Talia