Le navi fantasma.
Sono circa 500, l'equivalente delle flotte militari di USA e Regno Unito messe insieme, ma con un tonnellaggio ampiamente superiore. Sono di tutti i tipi: cargo, navi portacontainer, petroliere. In questo periodo dell'anno dovrebbero navigare tra Asia, Stati Uniti ed Europa per trasportare tutti quei beni che andranno a finire sugli scaffali in vista delle festività natalizie, ma invece si trovano alla fonda all'estremità meridionale della Malesia, nello stato di Johor, in acque abbastanza vicine a Singapore, ma al di fuori delle rotte tradizionali. In un articolo pubblicato qualche giorno fa dal reporter Simon Parry sul quotidiano britannico "Daily Mail" gli abitanti della costa di Johor- perlopiù pescatori- raccontano che ogni giorno nuove imbarcazioni si aggiungono alla "flotta fantasma", ma sono pochissime quelle che ripartono. Le navi molto spesso battono bandiere di comodo – Panama, Bahamas- ma appartengono ai giganti mondiali del trasporto via mare. A bordo ci sono equipaggi ridotti all'osso, a volte meno di dieci marinai, che aspettano tempi migliori in questo angolo di finis Asiae. È la "flotta perduta" della recessione mondiale, e non è il solo Daily Mail - quotidiano di fascia media- a riferire la notizia. Le navi bloccate al largo di Johor sono visibili a tutti: basta scaricare un programma dal sito vesseltracker all'indirizzo www.vesseltracker.com/en/Googleearth.html .
Spedizioni via mare al tempo della crisi
Le statistiche parlano chiaro: secondo Alphaliner, la newsletter di riferimento per il settore dei trasporti marittimi, proprio a settembre – mese in cui negli anni scorsi si assisteva ad un aumento delle operazioni in vista del Natale- il traffico di container ha registrato un record negativo. Le navi inattive appartenenti ai cosiddetti NOOs (Non Operating Owners; gli operatori che noleggiano le navi di un'altra compagnia) hanno raggiunto la quota di 654mila teu (twenty foot equivalent unit; unità di misura dei container), un numero senza precedenti. Non se la cavano bene neanche i "Carrier" (operatori con navi proprie su cui caricare i container), che totalizzano carichi inattivi per 643mila teu. Al 28 settembre 2009 le navi paralizzate risultavano il 10% del totale (se misurate in teu) o addirittura l'11.6% se misurate in numero di imbarcazioni. Si tratta di dati di poco inferiori a quelli del febbraio scorso, quando la crisi globale aveva appena iniziato a farsi sentire sui mercati internazionali. Il costo per spedire un container da 40 piedi (2 teu, secondo l'unità di misura standard utilizzata in questo tipo di trasporti) dalla Cina all'Europa è sceso dai circa 931 euro più spese di carburante dell'anno scorso ai 197 di quest'anno; la prenotazione di un cargo di materiali grezzi per la medesima tratta costa 6600 euro contro gli stupefacenti 202mila euro dell'anno scorso. Nel mese di agosto il colosso dei trasporti via mare Maersk ha registrato le prime perdite semestrali in 105 anni dalla nascita: i suoi portavoce hanno definito "di dimensioni storiche" la crisi in corso. Secondo alcuni analisti di settore le navi container inattive, ai tassi attuali, potrebbero raggiungere il 25% del totale nel giro di due anni. Al momento, insomma, i retailer d'Occidente che acquistano beni dalla Cina sono particolarmente cauti non solo perché si attendono un calo delle vendite per il Natale prossimo, ma anche perché non possono più beneficiare delle stesse linee di credito degli anni scorsi. Tra qualche mese scopriremo se gli scaffali dei grandi magazzini europei e statunitensi saranno semivuoti nonostante il Natale. Ma con queste statistiche, le navi ferme al largo di Johor assumono una luce ancora più sinistra.
Cosa succede oltre Muraglia?
I dati del Dragone stonano con il quadro generale, ma anche tra loro. Secondo le statistiche ufficiali, all'11 settembre scorso il Chinese Container Freight Index era a 941.9 punti, un aumento del 23.39% in più rispetto al punto più basso dell'anno, toccato nel mese di luglio. I dati diffusi dallo Shanghai Shipping Exchange mostrano che un indicatore curioso come il tasso medio di utilizzazione degli spazi impiegati per le spedizioni via mare ha raggiunto il 95%, contro il 60-70% del febbraio scorso. Eppure, secondo la Dogana Cinese, le esportazioni cinesi nei primi 8 mesi 2009 sono scese del 22.2% rispetto allo stesso periodo del 2008, e anche se agosto mostra un aumento lieve (+2.3%) rispetto al mese di luglio, molti analisti ritengono il trend troppo debole per giustificare l'ottimismo che indicherebbe settembre come il mese della ripresa, anche perché i retailer occidentali che si servono delle fabbriche manifatturiere cinesi hanno completato gli ordini per Natale già da tempo. Secondo un analista del settore, citato dal fondatore di China Strategic Development Partners Richard Brubaker, le industrie del manifatturiero cinese che avevano mandato negli Usa più di dieci carichi nel corso dell'anno, in agosto erano 86.686, contro le 86.570 di luglio; un incremento minimo tra i due mesi, laddove negli anni scorsi il periodo agosto-settembre mostrava dati vistosamente più pesanti rispetto a luglio. "I nostri dati ci suggeriscono che gli acquirenti sono estremamente cauti, al momento – scrive Brubaker – e personalmente non sono spaventato. Ma non mi aspetto neanche un salto nel periodo di settembre- ottobre. Il che fa sorgere una domanda: c'è davvero qualcuno che sta facendo delle ordinazioni per il prossimo Natale?". Una domanda che riecheggia anche esaminando il Baltic Dry Iry Index, un indicatore fedele del volume dei commerci globali, che non ha visto nessun aumento significativo dal tonfo registrato all'inizio di quest'anno. La situazione delle spedizioni dalla Cina, insomma, sembra quantomeno contraddittoria, e la dipendenza del Dragone dalle esportazioni sempre più nociva per i suoi equilibri interni. E forse il Natale 2009 potrebbe passare alla storia come quello in cui, invece di oggetti "Made in China", in USA e Ue ci si scambiarono regali riciclati.