Milano, 19 lug. - Dopo la crisi finanziaria, dopo quella dell'economia reale, adesso è il momento della crisi del debito: Grecia, Irlanda, Portogallo, di nuovo Grecia, Italia e ora addirittura Stati Uniti. Non solo mercati periferici, dunque, ma anche pezzi grossi dell'economia globale. Di certo la lentezza della ripresa ha contribuito ad aggravare la situazione. Quando il PIL cala o non cresce a sufficienza, il deficit e il debito aumentano in termini percentuali: si tratta di matematica elementare. Ma sarebbe sbagliato attribuire tutte le colpe alla recessione. I problemi di fondo esistevano già prima della crisi e riflettono un denominatore comune a molti paesi occidentali: l'incapacità della politica di tenere sotto controllo i conti pubblici. Che si tratti di mancanza di una leadership autorevole (come in Grecia e Portogallo), di spensieratezza fiscale pregressa unita ad un contesto politico instabile (come in Italia) o della difficoltà a trovare una linea condivisa da maggioranza e opposizione (vedi lo scontro al calor bianco sul debt ceiling negli Stati Uniti).
E mentre su entrambe le sponde dell'Atlantico ci si dibatte tra le turbolenze finanziarie, la Cina emerge sempre di più come un partner indispensabile. Più di un terzo delle ingenti riserve valutarie cinesi sono in dollari, mentre la quota di quelle in euro si attesta a circa un quarto. Ma potrebbe aumentare presto. Nelle ultime settimane, i leader cinesi – da Wen Jiabao al vice-governatore della Banca Centrale – hanno dichiarato di essere pronti a sostenere l'Eurozona investendo in modo ancora più massiccio nel debito sovrano denominato in euro.
Questo non significa che la Cina sia del tutto esente da simili preoccupazioni. Un serio problema è rappresentato dalla corruzione e dalla mancanza di trasparenza nell'allocazione della spesa pubblica soprattutto a livello locale. Ad esempio, lo scorso giugno l'agenzia di rating Moody's ha stimato che le amministrazioni locali cinesi abbiano accumulato circa 450 miliardi di dollari di debito precedentemente non contabilizzato (questo articolo) . Una tale incertezza si riflette nei rating mediocri che il debito cinese a tutt'oggi ottiene dalle principali agenzie (più o meno in linea con la performance italiana).
Tuttavia il dato di fondo rimane: Pechino svolge il ruolo del creditore, mentre i paesi occidentali continuano a prendere a prestito. Per il momento, tutto quello che l'Occidente può fare è ringraziare – il contributo cinese è vitale – ma nel medio-lungo termine una tale dipendenza non potrà non avere conseguenze sul piano degli equilibri globali. In prospettiva, non viene messo in discussione soltanto il primato economico dell'Occidente, ma anche il suo ruolo come fucina di presunti valori universali. In particolare, le difficoltà incontrate nel gestire in modo appropriato i conti pubblici mettono in luce una delle più gravi debolezze delle istituzioni democratiche, ossia la propensione a guardare quasi esclusivamente al breve termine. Il rincorrersi delle tornate elettorali spesso costringe il politico ad assecondare – se non addirittura ad alimentare – le richieste immediate della popolazione. In alcuni casi, però, un sacrificio oggi porterebbe a maggiori vantaggi domani. Questo circolo vizioso è una delle ragioni che spiegano l'incapacità di tenere sotto controllo le finanze pubbliche in molti paesi occidentali: spesso rimandare le riforme strutturali a dopo le elezioni appare politicamente più sicuro che razionalizzare subito la spesa. Simili problemi sono, invece, drasticamente ridimensionati in un paese come la Cina, dove il Governo delinea gli orientamenti generali di cinque anni in cinque anni e la pressione della cosiddetta società civile viene limitata con mezzi più o meno violenti.
Non si vuole qui suggerire che un paradigma sia migliore di un altro. Ma in Occidente sembra opportuno interrogarsi sulla possibilità di adattare il sistema democratico in modo da correggerne le attuali storture. L'alternativa (meno allettante) è quella di continuare a decantare il nostro esempio come il migliore, non accorgendoci che invece – a furia di affidarci agli investitori cinesi – stiamo implicitamente riconoscendo il predominio del loro modello.
di Giovanni Compiani
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