Contro Google due scuole cinesi
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Contro Google due scuole cinesi

Contro Google due scuole cinesi

Stati Uniti. L'intelligence: dietro i cyber-attacchi un'università di Shanghai e un istituto professionale
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Antonio Dini
Un'università e una scuola professionale dell'esercito. Sono questi i due punti di partenza in Cina per l'operazione Aurora, la serie di attacchi informatici contro Google e altre 33 aziende occidentali scoperti a dicembre e denunciati a gennaio. Opera di studenti-hacker o forse di giovani esperti legati agli ambienti ufficiali di Pechino, secondo le prime ricostruzioni avanzate dagli investigatori americani. Intanto Google - che aveva annunciato di non voler più aderire agli ordini di censura del governo cinese a costo di dover abbandonare la Cina - ammorbidisce la sua posizione, mentre fonti indipendenti affermano che in realtà sono ripresi i blocchi dei siti non graditi a Pechino.
Secondo gli investigatori americani, tra i quali spicca la National Security Agency, dei due centri cinesi da cui sarebbe partita l'operazione Aurora, uno potrebbe avere forti legami con il governo di Pechino. Si tratta della scuola professionale superiore di Lanxiang, nello Shandong, in cui si specializzano i militari che lavoreranno nel settore informatico. L'altro centro coinvolto è una delle università delle nuove élite cinesi, cioè la Jaiotong di Shanghai. Secondo altre fonti, gli esperti americani avrebbero tracciato le intrusioni a partire da specifici laboratori, in alcuni casi in corrispondenza dell'orario di lezione di un docente di informatica di nazionalità ucraina. Una portavoce della scuola di Lanxiang ha dichiarato alla stampa anglosassone che le accuse sono infondate perché in realtà il livello delle classi è molto basso.
Le reazioni di Google alla scoperta delle violazioni, lo scorso 12 gennaio, erano state molto decise. L'azienda, che aveva notificato gli attacchi alle altre imprese coinvolte e aveva anche scoperto il tentativo di violare le caselle di posta elettronica di una dozzina di attivisti cinesi per i diritti umani, aveva infatti deciso di rimuovere i filtri di censura obbligatori.
Pochi giorni fa, il 12 febbraio, Sergey Brin, uno dei co-fondatori di Google, ha dichiarato durante una conferenza negli Usa di essere ottimista e di voler comunque trovare un modo per collaborare con la Cina al fine di continuare a fornire risultati di ricerca il più autonomi possibile. Niente più censure politiche, ma solo per la pornografia (vietata in Cina) e altri materiali di questo tipo. «Forse - ha detto Brin - la gente non mi crederà, ma il motivo per cui siamo entrati in Cina non ha a che fare con il fatturato e il profitto, ma con il desiderio di fare il meglio possibile per la popolazione». Riguardo all'ipotesi che sia stato il governo cinese a spiare Google e le altre aziende, Brin ha gettato acqua sul fuoco delle polemiche sollevate anche dal governo Usa con una offensiva diplomatica nelle scorse settimane. «Anche se dietro quei fatti - ha dichiarato Brin - c'è stato un agente del governo, secondo me rappresenta solo un'ala marginale. Penso che in Cina ci siano molte persone con una visione e degli obiettivi molto differenti».
La filiale cinese di Google, diretta dalla fondazione nel 2005 sino a fine settembre 2009, dall'ex manager Microsoft Kai-Fu Lee, prima aveva sempre appoggiato le normative cinesi relative alla censura, in ottemperanza ai desideri del governo di Pechino. Poi, due fatti: prima il peggioramento delle relazioni a seguito delle richieste di crescente censura a partire dalle Olimpiadi del 2008; quindi, la scoperta dell'operazione Aurora, che ha fatto precipitare gli eventi.
Google aveva dichiarato che avrebbe rimosso unilateralmente i filtri alle ricerche sul web (cosa avvenuta a metà gennaio) e di essere pronta anche a chiudere gli uffici di Pechino. Negli stessi giorni, il segretario di stato americano Hillary Clinton aveva avviato una dura rappresaglia diplomatica, attaccando le censura della Cina e aveva ipotizzato la costituzione di una commissione ufficiale d'indagine del Congresso americano. A inizio febbraio il China Daily, l'organo ufficiale del governo di Pechino, aveva ripreso l'argomento con un editoriale in cui scriveva che «il monitoraggio delle connessioni alla rete è legato naturalmente al contesto nazionale in cui ogni governo si trova ad agire» e che «la società cinese ha una capacità di gestione delle informazioni inferiore a quella dei paesi sviluppati come gli Usa».
Il mercato cinese è passato dai 22,5 milioni di navigatori del 2002 ai 338 milioni di fine 2009, più numerosi di quelli negli Usa. Google, con il 27%, ha il secondo posto nel settore della ricerca dietro al motore cinese Baidu. Secondo analisi indipendenti, Google per restare in Cina avrebbe riattivato non parzialmente ma appieno i filtri sui risultati delle ricerche, ricollegandosi allo "scudo dorato", il progetto tecnico creato negli anni Novanta dal partito comunista cinese per controllare le informazioni nel paese. Sotto lo "scudo" è attiva anche la cosiddetta "Grande muraglia digitale" del governo di Pechino.
antoniodini@me.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

20/02/2010
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