Di Eugenio Buzzetti
Pechino, 13 mag. - La Cina si avvia a ricordare in silenzio i cinquanta anni dall'inizio ufficiale della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, uno dei periodo più bui della sua storia recente. I poster della propaganda maoista di quegli anni sono diventati oggi icone pop in vendita nei caratteristici negozi degli hutong, i vicoli quasi interamente ricostruiti della vecchia Pechino, e il volto di Mao compare sui gadget acquistabili negli ultimi mercati del falso rimasti in vita dopo l'inizio della nuova normalità dell'economia che caratterizza gli anni di Xi Jinping.
Il 16 maggio 1966, una circolare oggi nota per la data di emissione dava ufficialmente il via a uno dei periodi più cruenti della storia recente cinese, che criticava accademici e funzionari "rappresentanti della borghesia" all'interno del partito e delle istituzioni. Cinquanta anni dopo, il dibattito storico su quel periodo è relegato ad alcune formule, come quella utilizzata da Deng Xiaoping negli anni Ottanta per archiviare gli eccidi nel novero del 30% di errori commessi da Mao durante i primi trenta anni dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese. Di recente, però, la Rivoluzione Culturale e gli anni del maoismo si sono riaffacciati sulle pagine delle cronache, non solo della stampa straniera. Le settimane che hanno preceduto l'anniversario sono state contrassegnate dal controverso episodio dello show a base di canzoni rosse tenutosi nella Grande Sala del Popolo, il palazzo del parlamento cinese che affaccia su piazza Tian'anmen, ma anche da alcuni articoli di commento comparsi sulla stampa ufficiale. Uno di questi, "la Rivoluzione Culturale non tornerà", comparso sulle pagine del Global Times, usa toni rassicuranti e il parere di analisti cinesi per confermare che, a cinquanta anni dall'inizio del movimento e a quaranta dalla morte di Mao Zedong oggi "non c'è lo spazio economico e politico per la Rivoluzione Culturale" o, meglio, per un suo ritorno.
"La Rivoluzione Culturale fu lanciata da Mao per due motivi - spiega ai microfoni di Agi e di Radio Radicale Jean-Philippe Beja, direttore di ricerca emerito presso al Centre National de la Ricerche Scientifique di Parigi - il primo era quello di riprendere il potere che Mao aveva perso dopo il fallimento del Grande Balzo in Avanti e la carestia che aveva provocato quaranta milioni di morti, e il secondo per impedire alla Cina di diventare revisionista come si diceva lo era diventata l'Unione Sovietica". Mao, spiega, "ha usato il malcontento della gioventù e la sua ingenuità per sbarazzarsi dei suoi nemici all'interno del partito".
Le condizioni sono mutate da allora. "Nel 1966, la Cina era isolata dal resto del mondo - spiega ad Agi Willy Wo-lap Lam, politologo della Chinese University di Hong Kong - Oggi, deve aumentare il commercio con l'Occidente per riuscire a mantenere almeno un 6% di crescita", ma la Cina "sta affrontando un momento difficile perché Xi Jinping sta riportando in vita molte norme dell'era di Mao, come il culto della personalità e la concentrazione di potere nelle mani di una sola persona". Le differenze tra allora e oggi sono molte, ma i rischi del sistema permangono. "Xi sta alimentando la fiamma del nazionalismo per mantenere al potere il partito e se stesso".
Molti analisti ed esperti si chiedono oggi se l'approccio di Xi non sia un ritorno del culto della personalità adattato ai tempi attuali, con tutte le contraddizioni del caso. Alcune sono emerse proprio nei giorni scorsi, con la pubblicazione di un discorso pronunciato dallo stesso Xi a inizio 2016 e in cui il presidente cinese criticava le "cricche e i carrieristi" all'interno del partito. "E' davvero ironico - commenta Lam - che mentre Xi condanna le cricche ne stia costruendo una propria. Xi si è rifiutato di condividere il potere con altre fazioni o blocchi del partito, come la Lega Giovanile Comunista, che è stata fortemente attaccata".
Il cinquantenario della Rivoluzione Culturale è stato un momento, per molti, per interrogarsi sul ruolo di Xi nella Cina di oggi e sulla sua interpretazione del potere. Per Beja, il dibattito attorno all'accentramento di poteri del presidente cinese riporta non a ricordi della Rivoluzione Culturale, ma, semmai, ad altre epoche storiche della Cina. La fase attuale "è più un ritorno degli anni Cinquanta o della seconda fase della Rivoluzione Culturale, perché Xi Jinping diffida moltissimo dell'azione delle masse, mentre Mao non ha esitato a movimentare la gioventù per eliminare i suoi nemici", continua Beja. Più che sulla Rivoluzione Culturale in sé, Beja sottolinea il giudizio generale su tutto il periodo maoista dato dallo stesso Xi già nel 2012, ovvero "non bisogna usare i primi trenta anni per criticare gli ultimi trenta anni". Il presidente cinese aveva fissato la sua linea riguardo alla storia fin dall'inizio del mandato. "Per Xi - conclude lo studioso - il Maoismo è stato positivo per istituire il regime attuale e solo così stata possibile la ripresa economica della Cina".
13 MAGGIO 2016