Milano, 15 mar. - Sulle colonne del Financial Times è recentemente comparsa la notizia che la Cina è diventata il primo Paese manifatturiero al mondo per volumi di produzione (questo articolo). Altre ricerche evidenziano che larga parte delle catene di fornitura dipendono dal sistema industriale dell'ex impero di mezzo: ad esempio, circa il 50% dei telefoni, il 70% dei condizionatori, il 70% delle scarpe e l'85% dell'intimo femminile sono prodotti in Cina. Il ruolo che da un punto di vista politico il governo cinese gioca nello scacchiere internazionale è sempre più rilevante: è ormai opinione diffusa che gli Stati Uniti non rappresentino più l'unico "faro del mondo". Tutto sembra procedere a gonfie vele; tanto più che il Presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao hanno saputo traghettare il Paese fuori dalla crisi senza grosse difficoltà, al contrario di tutti gli altri Stati occidentali.
In realtà, il quadro non è così roseo come potrebbe sembrare ad una lettura superficiale. Lo stesso Wen ha indicato – nella sua relazione iniziale al Congresso del Popolo (5 marzo 2011) – i problemi irrisolti del Paese della Grande Muraglia indicando con grande chiarezza come il modello di sviluppo industriale cinese debba cambiare: da fabbrica del mondo, la Cina dovrà puntare sempre più su qualità, innovazione, offerta di servizi e domanda interna (questo dossier). All'ex Impero di Mezzo è insomma richiesto di diventare un'economia matura: di trasformarsi da "capitalismo con caratteristiche cinesi" a "capitalismo proiettato su scala globale e contraddistinto da produzioni a valore aggiunto". Si tratta di una sfida non facile. L'inflazione è ormai diventata un problema reale (anche a febbraio si è attestata al 4,9%) in quanto fonte di malcontento nelle campagne e nelle città (solo il 6% dei cinesi si dichiara felice): tant'è che per la prima volta negli ultimi decenni il budget dedicato alla sicurezza interna ha superato quello militare.
Il cambiamento di paradigma produttivo - ritenuto necessario dall'establishment governativo - richiede un forte cambiamento di politica industriale: al contrario di quanto si pensi, infatti, larga parte dell'economia e dei profitti derivano non tanto dalle grandi imprese di stato quanto da piccole imprese private che sono riuscite però ad essere competitive grazie a una politica del laissez-faire secondo cui il governo ha spesso chiuso un occhio (sul fronte del rispetto delle norme) pur di rendere possibile il fenomenale processo di crescita economica registrato negli ultimi venti anni.
Alla luce delle nuove priorità, viene da chiedersi se il Partito sarà all'altezza della sfida. Sono personalmente convinto che ci siano tutti i presupposti perché anche questi obiettivi possano essere raggiunti: basta osservare gli eventi recenti. In primo luogo, la stessa consapevolezza dell'esistenza di alcuni nodi irrisolti è di per sé un fatto molto positivo, che, combinato con l'enorme massa di liquidità disponibile, rende possibili molteplici programmi di sostegno al cambiamento. D'altro canto, è stato recentemente varato un piano di housing sociale volto a costruire 10 milioni di nuove abitazioni così da cercare di contenere la bolla immobiliare (questo articolo); saranno ponderosi gli investimenti sul capitale umano per favorire la crescita di competenze e innescare dinamiche innovative soprattutto in quel tessuto di piccole imprese, che sarà sempre più esposto alla competizione internazionale: del resto la Cina è già oggi il secondo Paese al mondo per numero di brevetti registrati. Saranno, infine, inevitabili – e verranno fortemente incoraggiate - operazioni di acquisizione di aziende straniere in possesso di know how esclusivo e coerente con gli obiettivi strategici delle imprese cinesi di costruirsi un posizionamento distintivo a livello locale e su scala globale.
Insomma alla Cina è richiesto di diventare, come diceva Confucio, xiaokang, ovvero una società prospera che gode dei frutti del proprio lavoro e cresce in modo equilibrato e sostenibile. Davvero un'altra Cina; un ritorno ai fasti della storia passata, in cui l'ex Impero di Mezzo era non solo capitale economica del mondo ma anche fucina di continue innovazioni.
di Giuliano Noci
Il Professor Giuliano Noci è prorettore del Polo Territoriale cinese Politecnico di Milano.
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