Milano, 16 feb. - Tra i concetti che l'immaginario collettivo associa al modello di sviluppo economico cinese, quello di sostenibilità ambientale verosimilmente non figura ai primi posti. Eppure, diversi segnali suggeriscono che anche il Dragone si sia lasciato coinvolgere dalla fascinazione per la "green economy" negli ultimi anni. Per citare qualche dato, la Cina è oggi il primo produttore mondiale di pale eoliche e pannelli fotovoltaici e, con l'Undicesimo Piano Quinquennale, più di 300 miliardi di dollari sono stati investiti nel risparmio energetico e nella riduzione delle emissioni inquinanti tra il 2006 e il 2010 (questo articolo).
L'esplosione dell'economia verde è stata facilitata anche dall'implementazione del Clean Development Mechanism (CDM), una procedura prevista e regolamentata dal Protocollo di Kyoto. Di che cosa si tratta esattamente?
Il CDM è uno dei cosiddetti "meccanismi flessibili" che i paesi dell'Allegato I (ossia i paesi industrializzati che hanno ratificato il Protocollo) possono adottare allo scopo di raggiungere gli obiettivi prefissati in termini di riduzione delle emissioni di gas serra. In altre parole, Kyoto, pur indicando come strada maestra quella della definizione di un'adeguata politica ambientale a livello nazionale, consente agli stati inclusi nell'Allegato I di avvalersi anche di meccanismi alternativi. Uno di questi è appunto il CDM, tramite cui le imprese dei paesi industrializzati possono investire in progetti "verdi" in paesi in via di sviluppo, ottenendo così crediti di emissione (CER, ossi "Certified Emission Reductions", equivalenti a una tonnellata di CO2 ciascuno), che vengono conteggiati al fine di valutare il raggiungimento dei target prestabiliti.
La Cina non rientra nella lista dell'Allegato I e, di conseguenza, non è soggetta ad obblighi vincolanti in base al Protocollo di Kyoto, ma gioca un ruolo di primo piano in quanto paese di destinazione dei progetti implementati nell'ambito del CDM. Basti pensare che più di metà dei crediti di emissione assegnati ad oggi deriva da investimenti realizzati nella Terra di Mezzo e gli analisti dell'UNFCCC (la convenzione sul cambiamento climatico in seno alle Nazioni Unite) prevedono un consolidamento del trend nel prossimo futuro. Nelle prime settimane del 2011 sono già stati approvati diversi progetti, tra cui, ad esempio, la costruzione di un impianto eolico a Da'an nella provincia dello Jilin ad opera di un'impresa inglese e la realizzazione di una centrale idroelettrica nella provincia dello Yunnan da parte di un'azienda australiana.
Ma qual è l'impatto effettivo del Clean Development Mechanism?
Questo tipo di meccanismi flessibili consente alle imprese dei paesi sviluppati di "delocalizzare" la riduzione delle emissioni inquinanti nelle economie emergenti e ciò, in linea di principio, comporta alcuni vantaggi. Innanzitutto, un simile processo può fungere da contrasto al cosiddetto "carbon leakage", ossia il fenomeno per cui le produzioni più inquinanti vengono trasferite dagli stati con legislazione in materia ambientale più rigida a quelli in via di sviluppo, dove in genere le norme a tutela dell'ecosistema sono meno severe. In secondo luogo, c'è anche un potenziale beneficio economico: ridurre le emissioni nei paesi emergenti è tipicamente meno costoso, in quanto i livelli di efficienza (ad esempio, in termini energetici) sono più bassi e si possono ottenere miglioramenti significativi introducendo innovazioni relativamente semplici. Al contrario, nelle economie industrializzate, dove il margine di miglioramento è più ristretto, sono generalmente necessarie modifiche più dispendiose.
A fronte di questi potenziali vantaggi, il CDM pone però alcuni interrogativi. Il principale riguarda la definizione dei criteri in base a cui valutare l'efficacia dei progetti. Il Protocollo di Kyoto specifica che le riduzioni ottenute tramite il CDM devono essere addizionali rispetto a quelle che si sarebbero realizzate altrimenti. Questo richiede la fissazione di una "baseline", ossia una stima del livello di emissioni che si sarebbe registrato in assenza del progetto. Ma una simile valutazione è tutt'altro che immediata e, soprattutto, difficile da verificare e ciò induce alcuni osservatori a sospettare che il CDM sia spesso usato come modo per ottenere crediti di emissione tramite iniziative che, in verità, non soddisfano il principio dell'addizionalità e che, quindi, non stanno realmente contribuendo al raggiungimento degli obiettivi di Kyoto.
A prescindere da queste limitazioni, il "Clean Development Mechanism" svolge una funzione potenzialmente cruciale come canale di trasmissione per tecnologie e competenze "verdi" dai paesi industrializzati a quelli emergenti. Nel caso specifico della Cina, a questo si aggiungono una crescente consapevolezza e attivismo da parte del governo centrale, che con il Dodicesimo Piano ha confermato di voler puntare in modo deciso sulla green economy nel prossimo quinquennio. In altri termini, una combinazione di contributi esterni e dinamiche interne sembra favorevole ad una rapida ascesa del Dragone in uno dei settori che, al di là delle effimere tendenze di business, pare destinato a ricoprire un ruolo sempre più strategico nel prossimo futuro.
di Giovanni Compiani
Giovanni Compiani, laureato in Economia e Scienze Sociali presso l'Università Bocconi dove da agosto 2010 è iscritto al Corso di Laurea Specialistica in Inglese in Economics and Social Sciences. Da agosto a dicembre 2009 è stato studente in scambio presso la Harvard University e dal 28 giugno al 9 luglio 2010 ha seguito la quarta edizione della Summer School TOCHINA a Torino. Questo articolo è un commento dell'autore alla sua tesi di laurea "Sviluppo economico e globalizzazione: quale impatto sulla democrazia? Rassegna della letteratura e analisi del caso cinese".
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