Il senso dei cinesi per l'Europa è mutevole. Si adatta alle contingenze, ma non dimentica le strategie di lungo termine. Nel 2002 comprarono e smontarono due impianti siderurgici dismessi dalla Thyssen, a Dortmund, per rimontarli e farli funzionare due anni più tardi a Zanghjiang, porto e città industriale del Guangdong affamato d'acciaio. Questa storia, che da sola spiega la globalizzazione meglio di molti trattati e articoli accademici, è già invecchiata perché le modalità d'investimento della Cina, in Europa e altrove, sono in costante aggiornamento. Capacità produttive, accesso a risorse naturali, quindi terre rare ma anche terreni agricoli, reti energetiche e, sempre di più, asset industriali di pregio e con tecnologie di punta che la crisi dell'eurozona ha reso improvvisamente a buon mercato. Risultato: l'anno scorso gli investimenti diretti di Pechino in Europa sono raddoppiati a oltre 10 miliardi di dollari, e questo solo per le operazioni di acquisizione. Il Vecchio Continente è così diventato la meta preferita del capitale cinese, davanti al Nord America. Un trend che conviene forse assecondare, soprattutto in tempi di magra, mantenendo però elevata la soglia di vigilanza.