Roma, 3 feb.- Usa e Brasile fianco a fianco per mettere il Dragone sul banco degli imputati con l'accusa di concorrenza sleale. Yuan sottostimato e esportazioni a basso costo saranno - secondo quanto dichiarato da un funzionario di Brasilia - i principali argomenti al centro dei colloqui tra il presidente brasiliano Dilma Rousseff e Barack Obama, la cui visita nel Paese sudamericano è prevista per il prossimo mese. Ma l'argomento, secondo molti, potrebbe essere introdotto già il 7 febbraio quando, per la prima volta dall'inizio del suo mandato, il segretario del Tesoro statunitense Timothy Geithner farà tappa nella Repubblica carioca.
Paese in via di sviluppo grazie a un PIL al +7,3% nel 2010, mercato promettente, membro del BRIC (acronimo con cui si indicano le potenze emergenti di Brasile, Russia, India e Cina ): sono molti gli aspetti che accomunano Brasilia e Pechino, ma non sembrano sufficienti a schierare i due Paesi sullo stesso fronte sempre e comunque. Nessun mistero sulla volontà della Rousseff di approfondire l'alleanza con Washington al fine di ottenere "una collaborazione più marcata rispetto a quella messa in atto dal predecessore Luiz Inacio Lula da Silva" aveva dichiarato lo scorso 2 dicembre il capo del governo brasiliano al Washington Post, esprimendo inoltre "grande ammirazione per Obama". 'Simpatia contraccambiata' anche dal presidente americano che nel Brasile ha trovato un fermo sostenitore della campagna contro le esportazioni a basso costo. Rousseff, che si recherà in Cina il prossimo aprile, ha già 'arruolato' una squadra speciale composta da funzionari, diplomatici, uomini d'affari ed esperti di finanza al fine di ideare una serie di politiche che possano far fronte alle crescenti importazioni cinesi. Tra le proposte già prese in esame, un accordo multilaterale tra il Dragone e i Paesi dell'America Latina per incrementare l'export verso la Cina e riequilibrare così gli scambi commerciali.
Lo scorso anno, il volume delle esportazioni cinesi verso il Brasile è aumentato del 61% raggiungendo i 25,6 miliardi di dollari, anche a causa di un real che dal 2009 si è apprezzato del 34% nei confronti dello yuan. Il Dragone rappresenta inoltre il secondo partner commerciale degli Usa, responsabile nel 2010 di un volume pari a 416 miliardi di dollari. Uno scambio tutt'altro che equilibrato: sempre lo scorso anno, tra gennaio e novembre, il deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti della Cina è cresciuto del 26%, raggiungendo così i 252 miliardi di dollari e causando quello che è considerato il maggior punto di frizione tra la prima e la seconda potenza economica al mondo. E mentre Pechino sostiene che le ragioni del surplus vadano ricercate nel divieto di esportazione di prodotti ad alto contenuto tecnologico che l'America applica nei confronti della Cina, secondo Washington il motivo di questo squilibrio risiederebbe nel fatto che la Cina mantiene intenzionalmente basso il valore della sua moneta. Il renminbi, assicura il governo statunitense, è stimato ad un valore di circa il 30% inferiore a quello reale allo scopo di ottenere un vantaggio negli scambi con l'estero. Solo una maggiore rivalutazione della valuta cinese, fanno sapere dalla Casa Bianca, potrebbe mettere fine a questo squilibrio commerciale. Ma la Cina, almeno per il momento, sembra irremovibile e dichiara che un eventuale apprezzamento dello yuan al di fuori dei parametri già previsti dalla Banca centrale di Pechino provocherebbe maggiore inflazione e un effetto di chiusura a catena negli stabilimenti cinesi, arrecando ulteriori squilibri all'economia mondiale.
Gli Usa però non sembrano i soli a vedere come una minaccia l'attuale tasso di cambio renminbi/dollaro: Rousseff è "molto preoccupata" per il rifiuto di Pechino di mantenere basso il tasso di apprezzamento sul biglietto verde, ha fatto sapere il ministro del Commercio brasiliano Fernando Pimentel. Il Brasile non è estraneo all'argomento. Lo scorso ottobre fu proprio il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega, a dichiarare senza mezzi termini: "Siamo nel mezzo di una guerra valutaria. E' già qui, la si sta combattendo, e l'economia carioca è già stata colpita". La definizione indica una serie di svalutazioni competitive messe in atto attraverso operazioni dirette o indirette sul proprio tasso di cambio da numerosi Paesi tra i quali Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan, India, Malaysia, Brasile. Obiettivo delle manovre: mantenere più basso possibile il valore della propria moneta per beneficiare maggiormente dell'export.
di Sonia Montrella
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