Apprezzare il renminbi? - Le ragioni del no di Pechino
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Apprezzare il renminbi? - Le ragioni del no di Pechino

Apprezzare il renminbi? - Le ragioni del no di Pechino

Pesano i timori legati alla crescita e alla tenuta sociale
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Guerra stellari tra le valute? «Penso che la principale preoccupazione di una rivalutazione significativa dello yuan sia che possa colpire duramente il settore dell'export, e questo per la Cina è molto pericoloso per la sua crescita», dice Juzhong Zhuang, capo economista dell'Asian Development Bank, la banca regionale multilaterale istituita nel 1966 per promuovere lo sviluppo delle nazioni asiatiche e dell'area del Pacifico.
Un pericolo per la crescita ma soprattutto per la sua tenuta sociale, come hanno ammesso onestamente i dirigenti cinesi all'ultimo vertice dell'Fmi a Washington, quando hanno osservato che se dovessero rivalutare il cambio troppo velocemente ne conseguirebbero molti problemi sociali legati a un crollo delle esportazioni del paese.
Poi c'è il rapporto conflittuale con gli Stati Uniti. «Lo yuan non dovrebbe essere un capro espiatorio per i problemi economici interni degli Stati Uniti», ha tuonato il 15 ottobre il portavoce del Commercio estero cinese, Yao Jian, respingendo la richiesta di rivalutare.
Ci vuole gradualità e visione di lungo termine: in un articolo pubblicato sempre il 15 ottobre, Zhou Xiaochuan il governatore della Banca centrale cinese, ha chiesto il proseguimento della riforma dello yuan ma solo nei termini di gradualità di Pechino. «Il tasso di cambio dello yuan sarà sostanzialmente stabile a un livello ragionevole ed equilibrato», ha scritto su Chine Finance, una rivista pubblicata dalla banca centrale cinese. Ma il problema è che i termini "ragionevole" ed "equilibrato" per Pechino non significano altrettanto per Washington.
Xin Zhiming, editorialista del China Daily, il maggior quotidiano in lingua inglese della Cina, invita a guardare lontano, a vedere gli eventi in prospettiva. Altrimenti l'Occidente non capisce la Cina e viceversa e a quel punto si rischia solo di «spostare la posizione delle sedie a sdraio sulla tolda del Titanic». Insomma di affondare tutti insieme. L'immagine è chiara nella sua drammaticità: gli scontri valutarie e commerciali non convengono a nessuno, la stabilità invece, ciò che amano i mercati, conviene a tutti.
Poi c'è la disputa ideologica. Il portavoce del Commercio estero, Yao Jian, contrario alla rivalutazione ha spiegato che «giudicare il cambio dello yuan "solo" dall'esistenza di surplus commerciale non è giustificato da nessuna teoria economica». Né marxista, né capitalista. Il premier cinese Wen Jiabao a Davos era stato ancora più esplicito: «La crisi finanziaria è nata negli Stati Uniti per un insostenibile modello di sviluppo. Bisogna ritrovare un equilibrio tra manifattura e finanza, tra chi consuma e chi risparmia. Solo così la primavera è dietro l'angolo e l'inverno passerà».
Senza contare le profonde divisione culturali tra i due blocchi. La confuciana Pechino, per ora, resiste alle richieste dei Wasp di Washington di rivalutare lo yuan almeno del 20%, conscia che la vera partita si giocherà nel 2012, al voto presidenziale, quando Barack Obama sarà tentato di scaricare davvero sulle spalle della Cina "capital-comunista" le colpe della disoccupazione americana. Dovuta, secondo Pechino, più al calo dei consumi e all'esplosione della bolla immobiliare che al deficit della bilancia commerciale con la Cina. Insomma deve cambiare il paradigma di sviluppo americano, con un ritorno alla manifattura.
Poi c'è l'accusa più grave. La Cina è sul banco degli accusati perché sarebbe un «manipolatore di cambi». Se passasse questa linea dura e il Senato desse il via libera alla legge (già approvata dalla Camera) Washington potrebbe mettere dazi a quei prodotti dei paesi che hanno un cambio sottostimato, cioè la Cina, e sarebbe l'inizio della guerra commerciale. Pechino naturalmente non ci sta e accusa a sua volta gli Stati Uniti per la crescita lenta, i debiti elevati, la scarsità di risparmio e una politica monetaria troppo inflattiva che ha invaso il mercato con una valanga di dollari appena stampati.
Poi ci sono le riserve monetarie e gli acquisti di T-bill americani. Nel mese di luglio la Cina ha in portafoglio 847 miliardi di dollari del debito pubblico degli Stati Uniti. Ogni volta che il dollaro cala, perde valore la montagna di riserve valutarie e di titoli di stato Usa acquisiti dalla Cina. E questo a Pechino proprio non va giù: cioè di pagare il conto della crisi con l'esportazione di inflazione. Un giochino del cerino che finirebbe per punire il leader dei paesi in via di sviluppo. Una beffa e un regalo per i bankers di Wall Street che alla fine se la sono cavata quasi tutti a buon mercato.
Infine la geopolitica. La Cina non ha fatto mistero del fatto che il suo rancore potrebbe esplodere nel caso in cui al G-20 si decidesse di accusarla formalmente come paese manipolatore dei cambi, una scelta politica senza effetti pratici ma che potrebbe pregiudicare il sostegno di Pechino su molti dossier aperti. Quali? Il sostegno della Cina è necessario non solo sul riequilibrio dell'economia globale, ma anche sui cambiamenti climatici e sui controversi programmi nucleari di Iran e Corea del Nord. Ecco perché pochi credono a un nuovo accordo del Plaza dove al posto dello yen ci sia lo yuan.
Ed ecco perché Juzhong Zhuang, dell'Asian Development Bank, concorda con i timori del premier Wen Jiabao quando chiede di non fare troppe pressioni sullo yuan. Perché questa mossa potrebbe essere un disastro per la Cina, l'Asia e alla fine, per il mondo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

21/10/2010
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