Roma, 25 feb.- Autobus, navi, treni e aerei: questi i mezzi di trasporto schierati dalla Cina per condurre il più grande esodo della sua storia che riporterà a casa oltre 30mila lavoratori cinesi dalla Libia. L'operazione coordinata dal governo coinvolge i Paesi confinanti con la Libia e le compagnie cinesi che hanno investito maggiormente in Africa. Mentre cresce il livello di allarme per la crisi libica, diversi gruppi petroliferi hanno riportato attacchi da parte di bande armate. Tra questi anche il colosso petrolifero cinese China National Petroleum Corporation (CNPC) che ha immediatamente dato inizio al rimpatrio del personale. Una notizia, questa, confermata anche dal portavoce del ministero degli esteri Ma Zhaoxu: "Alcune compagnie cinesi in Libia sono state assalite e molti lavoratori sono rimaste ferite".
Priorità assoluta, dunque, alla sicurezza dei cittadini, fa sapere il governo cinese. Martedì il presidente cinese Hu Jintao ha ordinato a tutti i rappresentanti del governo cinese, fuori e dentro i confini nazionali, di "fare tutto il possibile per salvaguardare la vita di tutti cinesi che si trovano sul suolo libico". "Sono circa 33mila le persone che devono essere rimpatriate" ha spiegato ad AgiChina24 il responsabile dell'agenzia di stampa cinese Xinhua a Roma, Wang Xingqiao. "La prima missione è già partita e circa 2.000 persone dovrebbero arrivare questa notte a Malta. Da lì saranno poi rispedite in Cina". Tra i Paesi coinvolti anche la Grecia e l'Italia: "Non è ancora sicuro, ma è molto probabile che delle navi partiranno anche dai porti di Civitavecchia e Brindisi" aggiunge Wang che spiega che le operazioni sono coordinate dalle ambasciate cinesi dei singoli Paesi. Intanto 12mila cittadini sono già tornati a casa.
Nel frattempo si apre un nuovo dilemma in politica estera per la Cina che per decenni ha appoggiato il regime di Gheddafi. Gli attacchi riportati agli impianti petroliferi da un lato e gli interessi commerciali dall'altro pongono il Dragone, tradizionalmente sostenitore di una politica di non-ingerenza, in una posizione difficile. A rendere ancora più delicati i rapporti tra la Libia e la Cina sono arrivate le ultime dichiarazioni di Muammar Gheddafi che, a giustificazione dell'uso delle forze armate per reprimere l'insurrezione, ha fatto riferimento alle proteste di Tian'anmen del 1989, uno dei temi più sensibili della storia cinese e ancora oggi oggetto di censura. "L'unità della Cina – ha dichiarato il colonnello – era più importante della salvaguardia dei manifestanti".
D'altro canto sono proprio quegli accordi commerciali che la Cina sta stringendo a livello sempre maggiore con diversi Paesi africani ad attirare le critiche del governo libico. Alla fine del 2009 il ministro degli Esteri della Libia Musa Kusa aveva dichiarato in un'intervista: "Stiamo assistendo a una vera e propria invasione cinese nel continente africano, i cui effetti saranno molto simili a quelli sortiti del colonialismo". Sebbene Pechino si sia sempre astenuta dal prendere una posizione su questioni interne, adesso i diplomatici cinesi temono che le violenze subite dai lavoratori cinesi nel Paese libico possano infervorare la popolazione cinese, dando vita a proteste nazionalistiche che costringerebbero il governo a assumere posizioni meno estranee alla vicenda e a dimostrare un maggior coinvolgimento nella situazione nordafricana.
Intanto gli attacchi alle compagnie petrolifere incrementano la preoccupazione sulla disponibilità dell'oro nero. Lo sgombero del personale ha dimezzato il volume produttivo di petrolio libico la cui carenza ha fatto schizzare i prezzi del greggio, che ha raggiunto quota 110 dollari a barile, il livello più alto dal 2008 (questo articolo). Da Pechino, alcuni esperti del settore sostengono che le rivolte libiche e la tendenza al rialzo del prezzo del greggio provocheranno una vera e propria corsa al petrolio da parte della Cina le cui ripercussioni si avvertiranno a livello globale.
di Sonia Montrella
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