« Quando mediavo tra Cuccia e Maranghi»
ADV
ADV
« Quando mediavo tra Cuccia e Maranghi»

« Quando mediavo tra Cuccia e Maranghi»

STORIA FINANZIARIA - IL CAPITALISMO ITALIANO
di lettura
di Antonio Quaglio
«Lo sa che ero quasi riuscito a ricucire tra Maranghi e Arpe in Mediobanca?» Cesare Romiti è al lavoro nel suo studio di Milano, sta partendo per Pechino. La Casa degli Atellani, dove l'amministratore delegato di Via Filodrammatici è vissuto fino alla scomparsa, è a due passi. «Per me Mediobanca, in trent'anni, è stata soprattutto lo studio di Enrico Cuccia - ricorda l'ex presidente della Fiat - ma Maranghi desiderava che andassi a casa sua quando le vicende erano molto delicate e serviva calma, riservatezza». Insomma: serviva il "tu per tu": «No, ci si confrontava con grande concretezza, ma sempre dandoci del lei: come accadeva con il dottor Cuccia». E come andò quella volta di Matteo Arpe? «I rapporti tra Maranghi e quel giovane direttore centrale si erano tesi dopo l'Opa Telecom. A un certo punto ruppero, ma Cuccia consigliò ad Arpe di ripensarci e mi chiese un intervento discreto. Ricordo che parlai a lungo con Arpe e alla fine lo avevo convinto; ma poi non ci fu nulla da fare». Decise Maranghi e questo - osserva oggi Romiti - dà la misura di quanto il fondatore di Mediobanca tenesse al punto di vista dell'amministratore delegato che aveva designato come suo successore. «La fiducia del presidente onorario in Maranghi era totale e non è mai venuta meno un solo istante. E mi creda: l'ipotesi che al vertice di Mediobanca potessi essere chiamato io è sempre e solo stata un refrain giornalistico. Tra Cuccia, Maranghi e me è sempre stato tutto chiaro».
L'episodio-Arpe (e quello gemello che riguardò l'uscita dello scalpitante Gerardo Braggiotti) è comunque utile per sfatare un luogo comune nella vulgata di Mediobanca: che il patron e il suo delfino fossero «un sol uomo» all'interno di una rigida cornice gerarchica. «Possedevano ambedue personalità fortissime, legate da un rapporto unico», sottolinea Romiti, a lungo in consiglio in Via Filodrammatici. «Ma erano diversi, in tanti momenti. Pensi che Montanelli piaceva infinitamente a Cuccia, ma con Maranghi, toscano come lui, qualche volta non si prendeva proprio». Già: la politica, la cultura. Cuccia aveva sempre accanto alla scrivania un tavolino con un volume in francese o in inglese, spesso d'antiquariato. «Entravi e ti diceva subito: deve andare assolutamente a vedere quella mostra a Vienna, questo fine settimana lasci perdere le "fetecchie"; sì: diceva proprio così». E quando Romiti, allora amministratore del Lingotto, prese l'iniziativa di acquistare Palazzo Grassi, «è stato parecchio per quelle mezz'ore di chiacchierata curiosa che Cuccia faceva precedere alle discussioni di lavoro. Che erano spesso molto brevi, anche se ancora oggi c'è chi non ci crede. Cuccia era velocissimo: anche a far di conto, a mente batteva quelli che usavano la calcolatrice. E Maranghi?
Romiti sorride, velando un po' di commozione nel ricordo. «Beh, quando la conversazione si prolungava un po', qualche volta sbuffava: lui non smetteva davvero mai di lavorare, a parte qualche rapida puntata nella sua riserva sul Ticino. Ma era bene così, e Cuccia aveva premiato anche la dedizione di Maranghi alla professione e all'istituto. Che era davvero sconfinata, al punto da aver poi giocato, per certi versi, contro di lui e contro Mediobanca: e lo dico con affetto e con rimpianto»
Dottor Romiti, vuol dire che, dopo la morte di Cuccia, l'amministratore delegato fece male ad arroccarsi? «Vede, Maranghi, come Cuccia, considerava Mediobanca letteralmente una "proprietà intellettuale". Il controllo, il diritto di guidare l'istituto, discendeva indiscutibilmente da una superiorità culturale e morale riconosciuta ai suoi dirigenti. Ma quando il fondatore morì, la compenetrazione totale tra la banca e le sue persone fu via via meno apprezzata. E Maranghi si chiuse, reagì con crescente rigidità, i suoi avversari crebbero e i suoi amici si assottigliarono». La scelta di tenere le esequie di Cuccia strettamente riservate fu simbolica. «Ha ragione, ma non c'era solo il Governatore Antonio Fazio: nella casa di Meina c'eravamo anch'io e Cesare Geronzi. Eravamo partiti assieme da Roma all'alba».
Fazio e Geronzi: le banche, il grande risiko degli anni 90. Il sogno della SuperBin, la grande fusione tra Comit, Credit e Banca di Roma, azioniste storiche di Mediobanca. «Era una grande visione - rammenta Romiti - e l'aveva avuta Cuccia, per tempo. Lui aveva visto nascere l'Iri proprio per rilanciare assieme quelle tre banche come punta di diamante della finanza italiana. E poi Mediobanca era stata la regista delle privatizzazioni delle Bin. Ma Maranghi, al di là di quanto se n'è detto e scritto, non era del tutto convinto della grande concentrazione. Era sempre preoccupato della centralità e dell'autonomia di Via Filodrammatici, non gli andava a genio l'idea di avere una super-banca come azionista di controllo». Due tentativi di annettere l'Ambroveneto alla Comit, nei primi anni '90, erano già andati a vuoto («Il professor Bazoli si difese con efficacia», riconosce Romiti) e il Credit si sfilò per fondersi con le Casse di Torino e Verona. «Ecco, vede, anche quando le Fondazioni si affacciarono sul riassetto del crediti, Maranghi ebbe un atteggiamento alterno: all'inizio ne diffidava per principio, preoccupato delle commistioni con la politica. Solo in seguito diede molto credito ad alcuni esponenti di quel mondo». Ma erano già gli anni in cui gli avversari erano divenuti maggioranza, i sodali veri erano quasi scomparsi e a Maranghi non fu infine risparmiato il licenziamento.
Fu questo, alla fine, l'errore di Maranghi, non dialogare più con le persone che avevano avuto un rapporto consolidato con Mediobanca? Romiti si schermisce: «Stiamo parlando di due grandi uomini che non ci sono più». Ma dopo una pausa: «Sa, l'ultimo punto d'appoggio di Maranghi dopo la morte di Cuccia era Vincent Bolloré, ma il suo mentore era Antoine Bernheim, che dal banchiere era stato rimosso dal vertice delle Generali». Intanto, in quell'inizio del 2003, la partita delle banche era già conclusa: e Mediobanca non l'aveva vinta. «Ma sarebbe profondamente ingiusto affermare che avvenne per responsabilità dell'amministratore delegato» ribadisce Romiti. Sarebbe a dire? «Quando il progetto SuperBin fu circoscritto a Comit e Banca di Roma, le condizioni c'erano e a Mediobanca non erano affatto dubbiosi: il gruppo romano doveva trovare un punto d'appoggio e la Commerciale doveva crescere. E le resistenze non vennero da Geronzi, ma da Piazza della Scala. E non solo dal top management, ma anche, inaspettatamente, da alcuni nuovi soci industriali privati cui proprio Mediobanca aveva aperto alcune porte. Il mondo stava cambiando e la parola, su cui Mediobanca fondava il suo modo di far finanza, non era più un valore assoluto».
Si era fine '98 e la primavera delle Opa era dietro l'angolo: UniCredit su Comit, Sanpaolo-Imi (di cui Fiat era azionista) su Bancaroma. «Me ne ricordo bene, tra Torino e Roma inizialmente il contatto fu stabilito, Geronzi e l'amministratore delegato, Rainer Masera avevano iniziato a sviluppare il merger, ma fu il presidente del Sanpaolo, Luigi Arcuti, a essere irremovibile sul peso da attribuire al management romano».
Episodi, squarci, angolature inedite. Romiti è d'accordo: «Sì, su Mediobanca, sull'esperienza ormai compiuta dell'istituto di Cuccia e Maranghi è tempo di riflessioni serie, approfondite. Via Filodrammatici e le grandissime personalità che in pochi decenni l'hanno reso protagonista assoluto hanno dato molto alla civiltà di questo Paese e l'Italia sbaglierebbe se pensasse di fare a meno della loro lezione. Se qualcuno s'impegnerà a ricostruirla come merita, io sarò il primo a dargli una mano».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

ADV
ADV



I protagonisti







07/08/2009
ADV