« Nelle città cinesi c'è una bolla»
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« Nelle città cinesi c'è una bolla»

« Nelle città cinesi c'è una bolla»

INTERVISTA Cheng Siwei - Preside della scuola di management all'Accademia delle scienze di Pechino
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CERNOBBIO. Dal nostro inviato
Il sorpasso della Cina sul Giappone non rappresenta tanto un evento da celebrare, quanto l'occasione per accelerare una trasformazione del modello di sviluppo cinese per assicurarne la sostenibilità: sul breve periodo, comunque, il problema è quello di frenare le spinte espansive in modo da contenere il rischio-inflazione e il pericolo di un rigonfiamento della bolla immobiliare. Il messaggio arriva da Cheng Siwei, 75 anni, che ha la fama di ambasciatore informale di Pechino sull'economia. Oggi la sua principale carica è quella di preside della scuola di management della Graduate University presso l'Accademia della Scienza, ma fino al 2007 è stato vicepresidente dello Standing Committee del Congresso. In passato con certe sue dichiarazioni ha finito per smuovere i mercati, da quelli valutari a quello dell'oro. A Cernobbio è venuto ad assicurare che Pechino fa sul serio sia nello sforzo di rafforzare la domanda interna sia nel promuovere riforme per internazionalizzare il suo sistema finanziario e il ruolo dello yuan.
Come è stato considerato in Cina il "sorpasso" sul Giappone?
Una testimonianza che la forza economica del paese sta crescendo. D'altra parte, siamo 1,4 miliardi di persone e il Pil pro capite resta molto più in basso che in Giappone: cento altri paesi ci superano, quindi non c'è ragione per fare salti di gioia.
Alcuni osservatori guardano alle similitudini tra il modello di crescita giapponese e quello cinese per concludere che la Cina si starebbe avvicinando al punto in cui lo sviluppo potrebbe incepparsi.
Abbiamo imparato dall'esperienza giapponese. Stiamo modificando il disegno del nostro sviluppo, con un vero cambiamento strategico rispetto a una dinamica guidata in modo preponderante dagli investimenti e dall'export. Il focus è su un maggiore orientamento verso i consumi interni. La chiave è: aumentare il potere di acquisto delle persone e tenere sincronizzato il ciclo della crescita complessiva con l'espansione del reddito disponibile.
Qual è il suo pronostico sul Pil 2010 e quali rischi intravede?
Penso che la crescita sarà intorno al 9%, ovvero oltre il target ufficiale dell'8%. A differenza che altrove, dobbiamo evitare il surriscaldamento dell'economia senza pigiare troppo il freno. Permane il rischio-inflazione ed è innegabile una bolla immobiliare nelle aree urbane.
Lo yuan in agosto si è indebolito nonostante il continuo aumento del surplus con gli Usa. Come lo spiega e cosa risponde alle critiche di chi vorrebbe una maggiore flessibilità del cambio?
Le dinamiche recenti sul mercato dei cambi riflettono flussi di domanda e offerta su cui hanno inciso le turbolenze sul debito sovrano in Europa e le incertezze sull'economia Usa. La strategia della Cina in tre fasi è chiara: prima il peg sul dollaro; poi, dal 2005, l'aggancio a un paniere valutario; in futuro l'obiettivo è la piena convertibilità, finalizzata anche a dare a Shanghai un ruolo primario di centro finanziario internazionale.
Al Congresso Usa cresce l'insoddisfazione per il passo lento di questo processo. Non vede il rischio di frizioni commerciali e ritorsioni finanziarie?
Penso che non sia più il tempo di protezionismi. Siamo per la libertà degli scambi internazionali e promuoviamo il processo di integrazione economica regionale. Quanto alle riserve valutarie, posto che abbiamo oltre il 50% del nostro portafoglio investito in asset Usa, la nostra linea non cambia: quello che abbiamo non lo vendiamo, ma sulla parte addizionale è normale diversificare di più, in linea con le tendenze generali. Gli investitori di recente hanno spostato risorse sullo yen e un po' lo abbiamo fatto anche noi.
Quest'anno ha fatto notizia la conflittualità in varie fabbriche cinesi, specie a capitale straniero.
Niente di anomalo. In passato i salari dei lavoratori cinesi erano troppo bassi. La nuova politica incoraggia un aumento dei salari - in coerenza con la spinta verso un maggior potere di acquisto a stimolo della domanda interna – e anche una contrattazione collettiva. Del resto, lo sciopero mi sembra più popolare in occidente, no? Se ci sono state proteste in impianti a controllo straniero, è perché in certi casi le condizioni di lavoro sono davvero dure. Come dimostrano i molteplici casi di suicidio in fabbrica.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

04/09/2010
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