« Contratti in valuta forte»
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« Contratti in valuta forte»

« Contratti in valuta forte»

Reazioni in Italia. Le contromisure delle imprese
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MILANO
«Nel dicembre scorso, per la prima volta in Cina ho siglato un contratto nominato in euro. Una commessa da 150mila euro, per una fornitura che sto consegnando in questi giorni. Non era mai successo. Quando è possibile, cerco di usare la nostra valuta e non il dollaro. È un buon modo per ridurre i danni di un cambio che ormai è diventato insostenibile».
Giancarlo Losma è presidente di Ucimu, l'associazione che raduna 200 imprese produttrici di macchine utensili: 6 miliardi di euro di fatturato aggregato (53% da export) con 33mila occupati. Un comparto tipico di una manifattura basata sui beni intermedi e strumentali, da destinare soprattutto ai mercati internazionali. Dunque, ciò che va bene (o male) per le macchine utensili, va bene (o male) per l'intera economia italiana. E, ora, le cose non vanno per niente bene: fa impressione pensare che, soltanto pochi anni fa, si era ai minimi di 0,82.
Losma, che ha l'azienda di famiglia a Curno, in provincia di Bergamo, ricorre a un esempio personale per spiegare cosa stanno facendo le imprese italiane, impegnate ad affrontare una gran brutta situazione: la corsa dell'euro sul dollaro, con tutti gli squilibri sui conti che comporta. Una condizione non facile in cui si trova l'industria italiana che esporta negli Stati Uniti e più in generale nelle aree sotto l'influenza del dollaro, come la Cina.
Oggi come oggi, avere la struttura dei costi espressa soprattutto in euro (forte) e una quota rilevante dei ricavi in dollaro (debole) è un problema. Dal settembre del 2005, l'euro si è apprezzato rispetto al dollaro di quasi un quinto. Dunque, i ricavi ottenuti in dollari sono scesi proporzionalmente. Da gennaio, la variazione è stata del 5 per cento. «E in questo momento - dice Losma - non si possono aumentare i prezzi sul mercato americano dello stesso valore assoluto».
L'America, cambio o non cambio, resta fondamentale. Per i produttori di macchine utensili si tratta del terzo sbocco, dopo la Cina, che ormai assorbe la maggior parte delle macchine utensili realizzate in Italia, e la Germania, attualmente relegata al secondo posto.
Nei primi cinque mesi dell'anno, l'export del comparto è sceso del 13,3 per cento. In un contesto complesso, gli Stati Uniti nonostante tutto tengono: «Continuano a valere l'8,4% delle nostre esportazioni. Si tratta di una performance tutt'altro che trascurabile», dice Losma.
Dunque, il problema non è rappresentato dalla dinamica competitiva di queste, come di altre, imprese italiane. Il nodo è il bilancio che bisognerà chiudere a fine anno. «Penso con preoccupazione - afferma Losma - a quello che capiterà con le compensazioni di cambio dei valori di bilancio». Il rischio è che, alla fine, i ricavi siano decurtati, i profili finanziari già complessi si deteriorino ulteriormente e, alla fine, la voce più penalizzata sia il risultato netto. «Quest'anno - conclude Losma - ci mancava anche questo».
P.Br.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

17/09/2009
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