"Le startup in Italia sono una bella parola di cui ci siamo innamorati. Poco altro"
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"Le startup in Italia sono una bella parola di cui ci siamo innamorati. Poco altro"

"Le startup in Italia sono una bella parola di cui ci siamo innamorati. Poco altro"

 Ferruccio de Bortoli
 (Afp)  -  Ferruccio de Bortoli
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Non dovrebbe essere così. Però, a volte, è anche la firma che fa la notizia. Su L'Economia del Corriere della Sera, ci sono due pagine dedicate al mercato delle startup. L'autore è Ferruccio de Bortoli. Un ex direttore di uno dei più autorevoli quotidiani italiani tratta l'argomento (finalmente) trasferendolo (finalmente) dal recinto in cui spesso è relegato (le pagine di innovazione o di tecnologia) allo spazio in cui si discute di impatto economico sul Paese. E trattando le startup come imprese e non solo come idee. Parlando di numeri, investimenti, posti di lavoro.

Le startup, un mantra di cui ci si è innamorati

Ora, andando oltre la firma, de Bortoli definisce il termine “startup” “un mantra” di cui ci si è innamorati. Anche se poi la linfa che dovrebbe nutrire il settore (il capitale di rischio) ha dimensioni “modeste, irrisorie. Una delusione”. Quattro parole e una sentenza, difficilmente contestabile.

Altrettanto perentorie sono le parole, riportare nell'articolo, di Innocenzo Cipolletta, presidente dell'Aifi, l'associazione che promuove il private equity e il venture capital:

  • “Manca un vero mercato del capitale di rischio”;
  • mancano “fondi di una certa dimensione che possano investire da 5 a 20 milioni su tempi lunghi”,
  • mancano “gli angels che accompagnino i giovani”;
  • manca l'apporto delle medie e grandi imprese, che (con l'eccezione della farmaceutica e del fintech ) non investono in startup perché “un gruppo affermato migliora quello che ha” e “lascia fuori dalla burocrazia aziendale le idee più dirompenti”;
  • e poi, continua Cipolletta, manca l'apporto degli investitori istituzionali

"Se si investisse solo l'1% del risparmio previdenziale in startup"

“Se se si investisse in startup anche solo l'1% dei 220 miliardi di risparmio previdenziale...”. Come possibile contromisura, l'articolo cita le novità che potrebbero trovare posto nella prossima legge di bilancio: prima di tutto, agevolazioni fiscali sul capital gain che dovrebbero stimolare gli investitori istituzionali a dirottare parte delle risorse verso le startup. Qualche segnale c'è: il Fondo Italiano (guidato da Cipolletta e partecipato da Cassa depositi e prestiti) è nato proprio in chiave sistemica, per spingere il mercato del venture. A Milano è stato appena inaugurato il Fintech District per coagulare competenze e risorse in uno dei settori più dinamici dell'ecosistema italiano.

Anna Gervasoni definisce il vuoto di investimenti “notevole e inspiegabile”. Forse perché va oltre logiche puramente finanziarie. Per Stefano Firpo, direttore generale del ministero dello Sviluppo Economico, il problema “è culturale”. I pochi investitori sono “più finanziari che industriali”, puntano a crescite veloci e altrettanto rapide uscite dal capitale. Mentre gli imprenditori “sono distratti” e “ritengono ancora che sia possibile farsi l'innovazione in casa”. Anche Jody Vender, che ha dato impulso alla nascita di Italian angels for growth, lamenta l'assenza di imprenditori privati disposti a rimettersi in gioco con e nelle startup. Servirebbe “un diverso spirito”: gli imprenditori dovrebbero investire pensando di “restituire qualcosa” e non solo “per farsi una barca più grande”.

Per Corrado Passera (che quando era ministro dello Sviluppo Economico contribuì a definire l'attuale normativa in tema di startup) i fondi di fondi potrebbero essere utili. Ma lo sguardo, anche in questo caso, deve andare oltre bilanci e flussi finanziari. Conta “il contesto socioculturale in cui queste attività prendono forma”. Le città devono essere “accoglienti”, fornire servizi all'altezza e far sentire ai nuovi imprenditori “l'orgoglio di averli e non il fastidio di sopportarne la creatività”.

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