R oma - La sfida oggi, in un mondo sempre più interconnesso, è proprio quello di "far dialogare domini interdisciplinari che non dialogano tra loro". Una situazione "molto comune" che però porta a perdere "possibilità di far avanzare la ricerca scientifica". Ne è convinto Adriano Rossi, presidente dell'Associazione Internazionale di Studi sul Mediteranneo e l'Oriente (Ismeo), che racconta scopo e iniziative messe in campo. Come la conferenza "Archeologia del cibo, il contributo delle missioni italiane e internazionali in Africa e Asia" che si è tenuta a Roma, con la partecipazione di docenti ed esperti, da tempo impegnati sul campo. Un'occasione, quella romana, che dimostra una volta di più la necessità di far dialogare settori disciplinari diversi, e anche molto distanti, per far progredire la ricerca. Sono situazioni, infatti, "in cui possono entrarci tutti, dai fisici nucleari che mettono a punto programmi per approfondire con i microscopi elettronici, ai geografi antichi", sottolinea Rossi.
Quello che l'Ismeo cerca proprio di fare è "interconnettere tutti i settori, facendo dialogare domini interdisciplinari che non dialogano tra di loro, per vari motivi, spesso semplicemente per separazioni di tradizioni accademiche". Una situazione, osserva Rossi, "molto comune nella ricerca scientifica moderna in cui si moltiplicano le riviste di alto livello, i rapporti online, gli instant book: uno penserebbe che chiunque è informato il giorno dopo che è finita una missione, che tutto il mondo sappia. Viceversa, forse proprio perché ce ne sono cosi' tanti di strumenti apparentemente connettori, prosegue una vecchia tradizione. Cioè bravissimi studiosi nei rispettivi campi che non dialogano con altrettanti bravissimi studiosi di altri campi vicinissimi. E non dialogando - avverte il presidente dell'Ismeo - si perdono possibilità che fanno avanzare la ricerca scientifica, in quello specifico campo e talvolta anche in campi molto collaterali e via via sempre più divergenti". E chi da anni lavora sul campo ne è consapevole. Come Barbara Barich, l'archeologa italiana che nel 1987 ha fondato la missione nell'Oasi di Farafra, in Egitto. Allora, racconta, "ci avevano dato la concessione dell'intera depressione, che è la più grande del deserto occidentale, 10mila km quadrati. Quando ho cominciato non se ne sapeva niente, c'erano solo indicazioni di un geologo che aveva notato dei manufatti. I primi anni li abbiamo dedicati alla ricerca territoriale su amplissima scala e poi dal '90 abbiamo focalizzato che era importante questo Wadi El Obeiyid, ed è qui che finalmente nel 1995-'96 individuammo il villaggio e quella sequenza che è eccezionale trovare in pieno deserto: non c'era niente, era tutto sotto la sabbia". Intensi anni di scavi e di studi, che hanno fruttato una "gran mole di dati che vengono dalle analisi più complete, secondo le metodologie più moderne e che oggi - sottolinea Barich - ci autorizzano a rivedere tante posizioni proprio su un piano interpretativo importante". (AGI)