L e mani italiane sono considerate le migliori per restaurare un monumento offeso da una guerra o per salvare un frammento di storia tramandata sulla pietra. L’arrivo a Roma di due busti danneggiati dall’Isis dalle tombe siriane di Palmira è l’ultima testimonianza di un riconoscimento internazionale alla perizia di tecnici e studiosi. Il laboratorio dell’Iscr (lstituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro), dove l’operazione è stata presentata il 7 febbraio scorso, recupera e conserva pezzi di civiltà dal 1939. Non è solo questione di tecnica: “Esportiamo la nostra cultura della conservazione verso Paesi assai distanti. Ma lo abbiamo fatto e lo facciamo sempre nel rispetto della loro tradizione” dice il direttore dell’Istituto, Gisella Capponi. E’ una forma di diplomazia sottile, meno visibile ma penetrante perché “andare in un Paese per curarne i beni è un approccio importante e tranquillizzante”. Spiana la strada alla politica, ai rapporti commerciali, agli scambi umani.
Un filo sottile che neanche la guerra è riuscita a spezzare
Con lo stesso approccio si muovono gli archeologi italiani, sfidando le guerre e le rivoluzioni in paesi dove studiosi di altre nazionalità trovano l’accesso precluso o più difficile: è il caso della Libia. Pochi ricordano che anche dopo la caduta di Gheddafi (2011), gli italiani hanno continuato a operare finché le zone interessate dalle missioni sono state praticabili. Adesso, con la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli, sono pronti a tornare. Ma i contatti non si sono mai interrotti: “Siamo stati costretti a sospendere i lavori sui mosaici romani della Villa di Silin, vicino a Leptis Magna - spiega Gisella Capponi - ma anche nei periodi più duri del conflitto non li abbiamo mai davvero abbandonati”. In un modo o nell’altro, da Roma l’anno scorso sono arrivati ai colleghi libici i materiali per la protezione dei mosaici: il tessuto non tessuto e gli speciali tipi di malte che hanno preservato i tesori archeologici del secondo secolo dopo Cristo. “I tecnici libici verranno da noi fra aprile e maggio prossimi per seguire un corso di formazione, ma con la riapertura dell’ambasciata speriamo - prosegue il direttore dell’Iscr - di tornare a Leptis Magna. I siti archeologici libici meriterebbero di avere tante persone addette alla loro conservazione e anche questo contribuirebbe a ridurre le partenze dei migranti”. Si nutrono speranze analoghe per altre missioni: è il caso di quella di archeologia preistorica nello Jebel Gharbi, la fascia montuosa a sud ovest di Tripoli dove ha lavorato l’équipe congiunta diretta dalla professoressa della Sapienza Barbara Barich, che ha studiato importanti testimonianze dell’Olocene e del Neolitico: “Quella zona, come l’area del Tradart Acacus, è diventata impraticabile per i movimenti militari” dice la studiosa, che cominciò a lavorare in Libia nel 1969 e se n’è dovuta allontanare nel 2011. Non sono mai cessati, anche in questo caso, i rapporti con i colleghi al di là del Mediterraneo: “Malgrado le complicazioni, c’è l’importante pubblicazione dei quattro volumi ‘Libya Antiqua’ con l’editore italiano Serra, che contengono anche i nostri contributi scientifici. Abbiamo mantenuto un ottimo rapporto con la Direzione delle Antichità libica”, aggiunge Barich.
La riapertura dell’ambasciata faciliterà anche l’arrivo di studiosi libici, che a costo di rischi sono finora riusciti a raggiungere Roma passando il confine tunisino per ottenere il visto presso l’ambasciata italiana di Tunisi. “Ma sono pronta, quando sarà possibile - dice la Barich - a tornare in Libia o a mandarci i miei allievi con una missione che farà capo all’Ismeo, l’Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente”.
Il primato dell'archeologia italiana
E’ fiducioso il presidente dell’Ismeo, Adriano Rossi: “Ci sono modi in cui l’archeologia italiana si differenzia dalle altre, perché avendo molte specializzazioni e una conoscenza consolidata delle popolazioni locali - spiega - riesce a essere presente anche laddove altri Paesi occidentali non sono graditi”. E’ questo il caso, da un sessantennio, della Missione nello Swat in Pakistan: “Negli ultimi cinque anni il progetto italiano ACT, uno dei progetti di conversione del debito del Ministero degli Esteri, ha ricostruito un museo, scavato una città, due necropoli e due santuari buddhisti con la Missione archeologica italiana”, dice il suo direttore Luca Olivieri, il quale ha anche curato il restauro del grande Buddha di Jahanabad ricorrendo all’intervento di restauratori formati all’Iscr: “La scuola italiana di restauro, la tradizione rappresentata dalle sue istituzioni universitarie e da quelle chiamate all’intervento quotidiano su un territorio come quello italiano, ha un’esperienza e metodologie - dice Olivieri - che non hanno confronti altrove. Ovunque sia richiesto un intervento di alto calibro, nel mondo, si guarda all’Italia, e quasi sempre a quel gioiello che è l’Iscr”.
Se deve riassumere lo “stile italiano” in un episodio, il direttore dell’Iscr cita la vicenda della Stele di Axum, tolta all’Etiopia nel 1937 e restituita nel 2005, ma che richiese l’intervento successivo dell’Istituto nel 2008 per il riassemblamento: “Il clima all’inizio fu difficile - ricorda Capponi - per la diffidenza degli etiopi, ma quando videro quanta dedizione portavano al loro monumento i nostri restauratori, il rapporto si ribaltò. Divenne amicizia. Com’è successo in Cina, in Iran… La nostra missione è anche questa”.