R oma - Se la voce e' l'impronta digitale delle emozioni, Tarquinio Merula e' colui che a meta' del Seicento trasforma queste ultime in musica "inebriando la parola e il testo" e costruendo cosi' la "poesia del linguaggio parlato". Del compositore cremonese si e' detto a sufficienza a proposito delle sue produzioni strumentali, ma "e' stata trascurata quella per musica vocale di genere sacro", spiega all'AGI Giovanni Acciai, che dirige il Collegium vocale et istrumentale Nova Ars Cantandi nella prima registrazione mondiale dell'"Arpa Davidica" (Etichetta Archiv), in cui Merula, del quale ricorre il 350mo anniversario della morte, da' testimonianza della propria capacita' di "agire sulla voce in modo spericolato, sviluppando la lezione di Monteverdi e anticipando Vivaldi".
Giovanni Acciai e' uno dei piu' importanti interpreti e ricercatori di musica antica a livello internazionale. Lavorando su Merula ha scoperto uno di quei "giacimenti musicali" di cui l'Italia e' piena, e che impongono un "faticoso lavoro di archeologia musicale: scavo, assemblaggio, e riproposizione, perche' spesso si tratta di mettere insieme opere sparse". Come nel caso di Merula, "la cui intera produzione di genere sacro e' compendiata in sei volumi, affidati ai torchi dello stampatore veneziano Alessandro Vincenzi tra il 1624 e il 1652". "Da Monteverdi a Vivaldi, rispettivamente punto di partenza e di arrivo", spiega Acciai, "si dipana un arco di tempo disseminato di autori poco conosciuti e sui quali intendo lavorare: Giovan Battista Bassani, Giovanni Legrenzi e, appunto, Merula". Prende forma e identita' in quegli anni quel "cantare affettuoso" in cui "il testo non e' reso in maniera inerte ne' la distanza rispetto alle note e' aulica". Merula, inoltre, sperimenta sul tempo, sul cambiamento dei tempi, che "cambiano al modo in cui variano gli stati emozionali di una persona". Ecco, qui torna la parola, la sua centralita': "Essa -spiega Acciai nelle note che accompagnano il cd- e' la materia prima con cui Monteverdi, poi Merula e altri compongono musica.
La metafora musicale serve a rendere il significato della parola, cosi' come il poeta utilizza la parola come metafora per rappresentare le emozioni". E la voce e' uno "strumento ineguagliabile, capace di cogliere le sfumature dell'animo e i suoi cangiamenti". Tarquinio Merula definiva se stesso "cremonese", ma in realta' era nato in realta' a Busseto il 25 novembre del 1595, nella Bassa parmense, offrendo cosi' una curiosita' gustosa per chi voglia fare un salto di oltre duecento anni e collegarlo a Giuseppe Verdi, al quale la stessa citta' diede i natali. "Era un tipo focosissimo", spiega Acciai, un po' dunque come il suo celebre compaesano, ed entro' spesso in conflitto con i propri committenti piu' importanti: la chiesa e i poteri che facevano riferimento a Cremona. "Gli fecero capire che avrebbero potuto distruggerlo", ma cio' non gli impedi' di sbandierare il titolo di "Cavaliere" attribuitogli dal re di Polonia, alla cui corte aveva lavorato da come organista di chiesa e da camera dal 1622 al 1626.
E, per fortuna nostra, gli attriti e i bracci di ferro, motivati un po' dall'invidia altrui un po' da ragioni salariali, non ci tolsero il piacere di gustare un capolavoro come "L'Arpa Davidica", edito nel 1640, "con artificiosa inventione composta, la quale da tre, e quattro voci contrapuntizata obligata a non piu' viste maniere con insolita vaghezza risuona, salmi, et messa concertati con alcuni canoni nel fine", e dedicata al vescovo di Bergamo Luigi Grimani. Qui, come altrove, Merula lavora su poche voci sostenute da un basso continuo: e' una scelta motivata anche da ragioni pratiche, che vedono le chiese di provincia con pochi soldi da destinare al rafforzamento degli organici musicali consistenti. Il "cremonese", di conseguenza, si dedico' ad "affinare la scrittura per piccoli ensembles cameristici, esaltandone la valenza madrigalistica e, con essa, l'intensita' emotiva dei testi devozionali intonati".
Ne viene fuori, grazie alla straordinaria trama del contrappunto, la vera essenza di quella frase con cui Orazio Vecchi, maestro di Cappella del Duomo di Modena a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, defini' l'intreccio tra voci e forza sonora del testo: "Si mira con la mente, dov'entra per l'orecchie e non per gl'occhi. Pero' silenzio fate e 'nvece di vedere, ora ascoltate". E' la scena del teatro della vita, dunque, in cui, ripete Acciai con la sua Nova Ars Cantandi, "gli uomini che non cantano, non conoscono vittorie. Sono degli eterni sconfitti. Un teatro in cui la vita senza musica e' una vita perduta". (AGI)
(21 dicembre 2015)