«Mi chiedo se ho fatto bene a non parlare a mio figlio di tutto quello che era successo, ma non volevo turbarlo dandogli un’immagine così atroce e unilaterale dell’essere umano. E poi, forse, ero io che non me la sentivo. Ora però mi rendo conto che il silenzio può fare molto più male della parole». Così parlò Schulim Vogelmann, l’unico ebreo italiano tra i 1117 della lista di Schindler. O meglio, così parlò Schulim, scomparso nel 1974, attraverso la penna di suo figlio Daniel, editore de La Giuntina, la casa editrice fiorentina specializzata in libri di contenuto ebraico, in “Piccola autobiografia di mio padre”, pubblicata ora, proprio alla vigilia della Giornata della Memoria.
Perché la loro è la storia di un doloroso doppio silenzio, quello di un padre che non ce la faceva a rievocare l’orrore di quando ad Auschwitz diventò il numero che gli impressero sul braccio, il 173484, e vide per l’ultima volta la sua prima moglie Annetta e la sua piccola Sissel, subito uccise nelle camere e gas. E quella di un figlio nato nella seconda vita fiorentina di Schulim che, spiega ad Agi, non osava chiedere.
«Certe cose le ho sapute soltanto molti anni dopo la sua morte, come per esempio che c’era anche lui nella lista di Schindler. Purtroppo non gli ho mai chiesto nulla ma qualcosa è giunto miracolosamente fino a me, attraverso i ricordi di mia madre», chiarisce Daniel Vogelmann che nell’80, quando ha fondato la sua Giuntina non a caso ha pubblicato come primo libro “La notte”, di Elie Wiesel.
Lei oggi ha 70 anni e ne sono passati 43 dalla morte di suo padre. Perché ha deciso di dargli voce proprio oggi?
Ne parlavo da tanto, ma solo ora ho trovato la forza di colmare il buco nero relativo alla mia sorellina Sissel, la prima figlia di mio padre, uccisa bambina ad Auschwitz, per la quale ho scritto anche poesie, pubblicate in appendice al libro. Ho deciso di dare vita a questa piccola autobiografia per le mie nipotine Alma e Shira. Ma non solo per loro, per tutti gli altri giovani che spero la leggeranno. Perché la memoria non è solo ricordo, è insegnamento. E oggi è più che mai necessaria, considerando che in Parlamento siede un politico che ha osato ritirare fuori un falso storico come I protocolli dei Savi di Sion. I Cinque stelle dovrebbero cacciare Elio Lannutti.
Chi era suo padre?
Un ebreo fiorentino di origini polacche. Nato in Galizia si spostò prima in Austria, poi in Palestina e quindi a Firenze, la città dove con le leggi razziali del’38 lui e la sua famiglia diventarono cittadini di serie B. A Firenze cominciò la sua fine ma è lì che imparò anche il lavoro, quello, di tipografo che gli salvò la vita. Dopo la retata nazista del 16 ottobre ’43, a Roma, si mise in treno con la moglie e la bambina tentando di raggiungere la Svizzera per mettersi in salvo. Ma qualcuno fece una spiata, furono fermati a Sondrio, rinchiusi in carcere a Firenze e poi, a Milano, messi su un treno per Auschwitz.
Lo stesso treno che partì dal famigerato binario 21 e dove fatalmente, c’era Liliana Segre, oggi senatrice a vita.
Sì. Lei era con suo padre, il mio con moglie e figlia, su quel treno che dando voce a mio padre, nel libro definisco «l’anticamera dell’inferno», per le condizioni disumane in cui viaggiarono e di cui si è parlato troppo poco, probabilmente per pudore. Tra quei cinque si salvarono solo lui e la Segre. Annetta e la piccola furono selezionate per la camera a gas appena scese dal treno. Una delle tante domande che attanagliava mio padre, mescolata a un errato ma inevitabile senso di colpa era «Perché, tra tanti, mi sono salvato proprio io?».
Grazie al destino ma anche al suo lavoro di tipografo…
Quando i nazisti scoprirono che era un tipografo, lo trasferirono nel campo di Plaszow, nella tipografia dove si stampavano le sterline false che secondo le loro intenzioni avrebbero dovuto mettere in crisi la banca d’Inghilterra. Lì scoprì che molti prigionieri erano andati a lavorare a Cracovia nella fabbrica di utensili di Oskar Schindler. Ci andò anche lui, in tempo per evitare le folli marce della morte organizzate dai nazisti in vista dell’arrivo delle truppe russe.
Schindler riuscì a portare i suoi ebrei a Brunnlitz, in Cecoslovacchia. L’8 maggio del ’45, quando fu liberato, fu il giorno più bello della vita mia padre. Anche se pesava solo 40 chili e quando tornò in Italia non lo riconobbero.
Come ha saputo che era nella lista di Schindler, la cui storia è stata resa famosa dal film di Steven Spielberg che, a 25 anni dalla sua uscita viene riproposto nelle sale oggi, per la Giornata della Memoria?
Quando nel 2008 ai ricercatori fu aperto il più grande archivio sulla crimini del terzo Reich. Sulla lista di Schindler c’era lui unico italiano: c’era scritto «Ju.Ital. Vogelmann Szulim, Buchdrucker Meister» cioè maestro tipografo. Ju era l’abbreviazione usata dai nazisti per classificare gli ebrei. La storia di mio padre, l’ha raccontata anche Marco Ansaldo, nel suo libro "Il falsario italiano di Schindler".
Lui però non ne ha mai voluto parlare.
Pare che all’inizio ci provò pure, ma o non gli credevano o non volevano ascoltarlo. Gli dicevano «Ma pensiamo al futuro».
In qualche modo ci riuscì, sposando in seconde nozze sua madre, e ridiventando padre.
Mia madre, che a sua volta si era salvata nascondendosi in un convento con suo figlio, gli ridiede la vita. E anche il figlio che non avrebbe pensato di mettere al mondo.
Un altro bambino ebreo, nel libro, riguardo alla sua nascita, gli fa dire una frase molto toccante.
Non avrei mai pensato di poter mettere al mondo un bambino, un bambino ebreo, quando tutti i bambini ebrei sarebbero dovuti morire.
Se oggi potesse ritrovarsi davanti suo padre cosa gli direbbe?
Lo chiuderei in una stanza e lo obbligherei a raccontarmi tutto. Anche se un mio amico lo fece e mi raccontò che i pianti di suo padre arrivarono fin sulla strada.