"Li ho visti morire, ma non li ho lasciati soli". Il racconto di Alejandro, il primo ad arrivare
Tra le macerie del Ponte Morandi "sentivo solo i respiri angosciati di quelle persone che si aggrappavano alla vita". La testimonianza a Tpi

Alejandro è un falegname, lavora in un laboratorio a poca distanza dal Polcevera, il torrente sul quale passava il ponte Morandi. E' stata la prima persona che i sopravvissuti hanno visto dopo il volo dal viadotto crollato. Per alcuni anche l'ultima.
Quando ha sentito il boato e ha capito che non era un tuono del temporale che imperversava sulla città, Alejandro si è precipitato fuori dal capannone in via Campi 1 e ha visto. Ha visto quello che non c'era più. Un moncherino di ponte che, come in un film apocalittico si protende nel vuoto. Solo che, come scrive lui in una testimonianza riportata da The Post Internazionale, quello non era un film, ma la realtà, pochi minuti prima di mezzogiorno della vigilia di Ferragosto.
Pioveva a dirotto "e in quel momento", racconta Alejandro - che è nato in Ecuador ma vive a lavora nella periferia del capoluogo ligure - "come ogni burrasca che avviene a Genova, tutti si spaventano e pensano al peggio, sperando non si allaghi la città, e sperando non ricapiti ciò che è accaduto in passato". Il ponte, ammette "era l’ultimo dei pensieri".
La paura
"Si sente tuonare fuori e i primi centimetri d’acqua allagano i tombini. Io sono ancora dentro il magazzino e sto mettendo a posto. Passa mezz’ora con i tuoni sopra la testa: 'Bombe d’acqua', penso io. Ma il peggio si manifesta alle 11.50: un enorme boato fa tremare la terra e le luci si spengono di colpo. Dopo poco si riaccendono mentre mi dirigo verso l’uscita del magazzino. Esco fuori sotto la pioggia e vedo la gente dalle finestre piangere e domandarsi cos’è successo. Seguo il loro sguardo verso il ponte che non c’è più, e vedo quello spazio vuoto nel cielo. Comincio a realizzare la gravità del disastro davanti ai miei occhi. Tiro fuori il telefonino e comincio a filmare perché non ci voglio credere".
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E' a questo punto che Alejandro si trasforma da spettatore in protagonista. Un uomo con un kway rosso lo chiama dall’altra parte della strada. E' un albanese che, racconta il giovane ecuadoriano, "non vuole rimanere a guardare".
"Corro verso di lui con un altro ragazzo che non smette di fissare il ponte, mentre io ripeto che è caduto con le macchine sopra. È successo tutto di fretta e non ho pensato tanto. Seguo l’uomo di rosso e scavalchiamo il cancello delle ferrovie e, messo il telefono in tasca, corriamo incontro al luogo dove giacciono le macchine del crollo. Sembra una di quelle scene che vedi solo nei film di catastrofi apocalittiche, ma capisco subito che non lo è, avvicinandomi sempre di più alle vetture.
L'orrore
"Ne vedo sei: due camion e quattro macchine. E vedo i corpi dentro le lamiere. Allora vado incontro al camion con scritto sul fianco Alba che mi è davanti e trovo l’autista con il volto insanguinato e rivolto verso il sedile del passeggero. Respira ancora, gli chiedo se sta bene per ricevere qualsiasi risposta. Non risponde, solo respira con affanno. Lo afferro per il braccio e vedo che la cintura è strettissima e che lo sta quasi soffocando. Gli urlo che sono lì per aiutarlo, provo a slacciare la cintura, ma niente, è bloccata dal peso del autista. Provo ad aprire la portiera, insisto, ma niente. Allora lo rassicuro dicendogli di tenere duro, di continuare a respirare.
"Urlo verso i palazzi di via Fillak di chiamare l’ambulanza e i Vigili del fuoco. Gli altri due con cui sono controllano dentro le macchine per vedere qualche segno di vita e anch’io vado verso altre vetture per vedere chi è in grado di rispondermi. Ma si sente il silenzio. Da vicino solo i respiri angosciati di quelle persone che si aggrappano alla vita.
Gli ultimi respiri
"La seconda vettura a cui provo a prestare soccorso è una Panda con il tettuccio schiacciato sul passeggero che non si vede più. L’autista respira ma non si muove né apre gli occhi, allora lo incoraggio a continuare a respirare, mentre provo ad aprire la sua portiera. Purtroppo è bloccata.
"La mia attenzione poi si sofferma sulla macchina messa peggio e intravedo dai finestrini dei ragazzi, avranno la mia età! Vedo i dread, ce ne sono quattro. L’autista è schiacciato dal tettuccio e gli altri tre li sento respirare e cominciare a muoversi. Provo ad aprire la portiera messa meno peggio per cercare di tirarli fuori, ma niente. L’uomo di rosso mi dice che ci ha provato anche lui, ma di andare a vedere in giro se ci sono altri sopravvissuti. Vado verso un’altra macchina e quello che vedo è agghiacciante. Non si riescono a riconoscere i corpi dalle lamiere e mi dirigo verso un’altra macchina più in là. Ci sono due persone: un ragazzo e una ragazza. Il ragazzo è nel posto accanto al guidatore, per metà fuori dal finestrino: ha il braccio tatuato ma non respira. Allora guardo la ragazza e lei comincia a muoversi: ha le gambe bloccate e prova a liberarsi, le dico di non muoversi ma di continuare a respirare, ha la faccia insanguinata.
"Dopo aver controllato le macchine, l’uomo vestito di rosso vuole andare dall’altra parte della ferrovia per prestare aiuto ad altri, ma ci sono le macerie sopra: io mi arrampico seguendo le sue istruzioni e sopra le macerie dico quello che vedo, ossia solo l’autostrada sopra e le ferrovie e i cavi elettrici per terra. Allora lui mi grida di scendere e di tornare indietro, preoccupandosi della mia vita. Scendo e rifacciamo un giro tra le macchine provando ad aprire le portiere, ma niente.
"Guardo verso il cancello che abbiamo scavalcato e vedo altra gente. L’uomo mi dice di andare verso il cancello a cercare altra gente che possa dare una mano, ma, arrivato lì, la gente è confusa e spaventata, gente immobilizzata da quello che ha davanti. Vedo venire verso il cancello una persona con delle tenaglie per rompere il lucchetto: apriamo il cancello per lasciare libera l’entrata ai soccorsi e sento le sirene in lontananza, ma delle macchine si sono fermate sulla via per curiosare, allora urlo alle macchine di levarsi per lasciare passare i soccorsi e così riescono ad arrivare le prime ambulanze. Mi tolgo di torno per far lavorare persone che sono più preparate di me nel soccorso.
La memoria
Io mi porterò dentro quelle scene per tutta vita e, anche se è servito a poco il mio aiuto, sono contento di essere stato lì con quelle persone e aver dato il mio supporto morale e di essere stato vicino a loro gli ultimi momenti della loro vita, facendo sentire la mia presenza e rassicurandole, come sarebbe piaciuto a me se fossi stato nella loro situazione.
Non le ho lasciate morire da sole e non le ho lasciate con il silenzio della morte.
Non vorrei offendere nessuno dei famigliari con queste descrizioni. Vorrei dire loro che l’aiuto che ho prestato quella mattina l’ho fatto col cuore, come fosse stata la mia famiglia sotto le macerie. Le mie sentite condoglianze, mi dispiace per la perdita dei loro famigliari.
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