Scarcerazioni. Mafiosi. Ricordi di un un cronista. Sembrava di stare fuori dai cancelli della villa di don Vito Corleone-Marlon Brando nell’indimenticabile film ‘Il padrino’ di Francis Ford Coppola. Solo che i figuri dietro le inferriate erano veri, e lo era anche il padrino. Era il 28 febbraio del 1991, a Palermo era già primavera, una giornata di sole caldo, che brillava sulle foglie verdissime degli agrumeti. Davanti a quei cancelli c’era un plotone di giornalisti, compreso chi scrive. E nella villa in fondo, invisibile per i cronisti, c’era Michele Greco, detto ‘il Papa’ forse non solo per la sua esibita devozione cristiana.
Era tornato libero da poche ore, dopo cinque anni esatti di carcere in isolamento. E poche ore più tardi in cella sarebbe rientrato, per decreto, assieme agli altri 43 capimafia imputati come lui nel ‘maxiprocesso’, tutti scarcerati in virtù di una sentenza della Cassazione. Ma quel 28 febbraio era di nuovo il signore della sua amatissima tenuta, la ‘Favarella’, dove aveva creato, come si vantava spesso, anche nell’aula bunker, davanti alla Corte di Assise, una pregiata varietà di mandarino, il ‘tardivo di Ciaculli’.
Non che fossimo molto convinti della disponibilità di Michele Greco a riceverci, ma un tentativo andava fatto. Quello era il giornalismo di allora. Oggi difficilmente un cronista si azzarderebbe a cercare l’intervista con un mafioso, a meno di essere pronto alla crocifissione come manutengolo, correo, complice e concorrente esterno.
Michele Greco infine ci concesse udienza. Non in casa, ma sulla soglia. Ci accolse sotto il portico. Con i modi del gentiluomo di campagna che si piccava di essere, ci offrì il caffè, che arrivò in tazzine da servizio buono. Le passò lui stesso a ciascuno, e ciascuno salutò per nome. A ogni faccia associò il cognome giusto, anche se dal 1982 era stato latitante, e dopo la cattura, il 20 febbraio del 1986, era stato ininterrottamente detenuto. E a un collega, mentre gli stringeva la mano, disse sorridendo: “Lei non mi vuole bene”. Raggelante.
La scarcerazione di Greco e degli altri, inevitabilmente, diventò subito un caso nazionale. Il contesto era tutt’altro, ma l’ondata mediatica non fu dissimile da quella che si è sollevata nei giorni scorsi per l’uscita dalle galere di numerosi personaggi della criminalità organizzata a causa del rischio di contagio da coronavirus. E allora come oggi, la soluzione approntata dal governo è stata un decreto legge.
Nel 1991, presidente del Consiglio Giulio Andreotti per la settima e ultima volta della sua ineguagliata carriera, non si usava dare nomi suggestivi ai dl, che venivano rubricati semplicemente con il cognome del ministro loro autore. E appunto come decreto Martelli si ricorda il provvedimento che il primo marzo del 1991, dalla sera alla mattina, riportò in carcere i 44 capimafia, rilasciati qualche giorno prima per effetto di una sentenza della Corte di Cassazione che aveva dettato criteri rigidi per il computo della custodia cautelare, ovvero la detenzione prima di aver subito una condanna definitiva.
Quel decreto, predisposto dall’allora guardasigilli e numero 2 del Psi, rispose in fretta tanto all’indignazione dei magistrati antimafia, in un certo qual modo beffati dalla Cassazione, quanto allo sbigottimento dell’opinione pubblica per il ritorno in libertà di quei soggetti che si era abituata a vedere dietro le sbarre nelle gabbie della grande aula bunker dell’Ucciardone, dove si era concluso con una gragnuola di ergastoli il primo, epico, ‘maxiprocesso’ a Cosa Nostra.
In questo intento politco di rimediare a quella che già veniva additata come una debacle della Giustizia con la g maiuscola (per quanto fosse un frutto delle ordinarie dinamiche della giustizia con la g minuscola, quella amministrata dai giudici), il decreto Martelli somiglia molto al decreto firmato dal ministro Alfonso Bonafde e varato sabato sera dal Consiglio dei ministri. E’ vero che il testo di Bonafede, battezzato secondo la moda corrente “decreto boss”, non ha avuto l’immediato effetto manette del precedente martelliano, ma come quello ha cercato di raddrizzare ‘politicamente’ decisioni giudiziarie non condivise, ponendo le basi per un ritorno in carcere dei 376 detenuti per mafia che hanno potuto lasciare le loro celle per motivi di salute legati al rischio di contagio da Covid-19.
E’ stata anche questa volta, come fu nel 1991, una risposta ai cori d’allarme per le “scarcerazioni”. Anche se, bisogna dirlo, questo termine era tecnicamente appropriato nel 1991 ma oggi sembra alquanto improprio, perché non di remissione in libertà si è trattato ma di trasferimento agli arresti domiciliari, e dunque di permanenza in un regime, per quanto attenuato, di custodia cautelare. Il decreto di Bonafede, nel contenuto, è però molto diverso dal decreto Martelli. Oggi il ministro della Giustizia ha imposto ai giudici di sorveglianza, competenti sulla materia, di riesaminare la concessione degli arresti domiciliari agli imputati e condannati per reati di mafia o terrorismo, verificando se sussistano ancora i rischi di contagio da Covid-19 che ne sono stati alla base, anche sentendo i pareri delle autorità sanitarie.
Si tratta di norme procedurali, che in quanto tali saranno prevedibilmente oggetto di discussione e di varia interpretazione nelle aule giudiziarie al momento della loro concreta applicazione: ad esempio, il termine di 15 giorni entro il quale vanno riesaminati i benefici accordati, sarà perentorio, e quindi invalicabile, oppure ordinatorio, e quindi prorogabile? Materia per avvocati, qual è lo stesso Bonafede, che non ha osato più di tanto, limitandosi a piantare, ex post, alcuni paletti per il futuro. La sua mossa dà certo un segnale politico, ma quanto si sostanzierà nella revoca dei deprecati arresti domiciliari ai mafiosi è tutto da vedere.
Martelli fece di più. Lo stratagemma tecnico per rimandare in prigione subito gli imputati del maxiprocesso che una sentenza della Corte suprema aveva fatto improvvidamente uscire, fu di vestire il decreto (il numero 60 del primo marzo 1991) da “interpretazione autentica” degli articoli 297, 303 e 304 del codice di procedura penale. Con questa piroetta legislativa, fu possibile all’allora guardasigilli sostituire la lettura che delle norme avevano dato gli ermellini della Cassazione, per la precisione della I sezione penale, presieduta da quel Corrado Carnevale passato alla storia dell’antimafia con il dispregiativo nomignolo di “Ammazzasentenze” perché, parole di Pietro Grasso, “aveva fama di decisioni di legittimità eccessivamente formaliste e garantiste”. Così scrive l’ex presidente del Senato ed ex giudice a latere del maxiprocesso nel suo libro ‘Storie di sangue, amici e fantasmi: ricordi di mafia”, in cui rievoca anche la scarcerazione dei 44 ‘padrini’ grazie alla sentenza emessa dalla Cassazione l’11 febbraio del 1991.
Le motivazioni scritte dai supremi giudici sono tutte un arzigogolo sulle modalità di calcolo dei termini della custodia cautelare. Riassumendo, la Cassazione ritenne che la sospensione della loro decorrenza durante il dibattimento non fosse automatica, ma che fosse necessaria “un’apposita ordinanza da emettersi in data antecedente a quella in cui matura il diritto degli imputati alla scarcerazione”. In virtù di questo principio di diritto, i 44 imputati del maxiprocesso che avevano presentato il ricorso, ottennero la scarcerazione. I loro legali presentarono il 14 febbraio, giorno di san Valentino, la debita istanza ai giudici di Palermo, che dovettero tener conto delle indicazioni della Cassazione. E le porte dell’Ucciardone si aprirono.
Michele Greco, ‘il Papa’, potè così tornare il 27 febbraio – da libero, non agli arresti domiciliari – nella sua tenuta della ‘Favarella’, dove l’indomani si degnò di parlare con i giornalisti avidi di interviste con il presidente della commissione di Cosa Nostra, la così detta ‘cupola’: questo era il suo rango nelle gerarchie mafiose.
Non diede un’intervista a nessuno di noi, ma ci fornì un breve assaggio della sua eloquenza obliqua, di una pacatezza artefatta squarciata da guizzi di violenza verbale, sempre in bilico tra il vittimismo e l’allusione: “Io non ho mai mafiato, che cos’è la mafia non lo so”, diceva. “In carcere – raccontava - ho letto la Bibbia, perché sono un vero cristiano. Ci sono dei porci che fanno ironia su questo. Ma io non so odiare. Ho fatto sempre l’agricoltore. Tutta la borgata è venuta a salutarmi affettuosamente, e la polizia li ha registrati tutti. Ma io non ho rabbia, non ho rancore”.
L’intervista la diede invece, quel pomeriggio, a Lino Jannuzzi, per il programma televisivo “L’Istruttoria” di Giuliano Ferrara. Né i giornalisti né Michele Greco potevano saperlo, ma in quelle ore il governo Andreotti preparava il decreto per vanificare la sentenza della Cassazione. Il giorno dopo, il coltivatore di mandarini ‘tardivi di Ciaculli’ sarebbe tornato in carcere, per uscirne soltanto da agonizzante, diretto all’ospedale Sandro Pertini di Roma.
L’intervista di Jannuzzi andò in onda il 6 marzo, quando il caso delle scarcerazioni si era ormai chiuso, dopo aver fatto molto discutere la politica e i giornali. E, più lontano dai riflettori, anche i giuristi. La rivista giuridica ‘Il Foro italiano’, pubblicazione tra le più prestigiose del settore e tra le più lette da chi con il diritto lavora, criticò con pari severità tanto la sentenza della Cassazione quanto il decreto Martelli.
Citiamo: “Il tentativo di un’analisi della sentenza – che prescinda in quanto tale da condizionamenti di tipo emozionale e da valutazioni di ordine pubblico connesse all’avvenuta scarcerazione di numerosi presunti “boss mafiosi” – non può esimersi dal rilevare l’inquietante sommarietà della motivazione e l’oscurità di alcuni dei suoi principali passaggi logici”. Dunque, una severa bocciatura per la Cassazione di Corrado Carnevale.
Ma bocciatura altrettanto inappellabile per Claudio Martelli. Citiamo ancora: “A prescindere dall’aspetto più contestato di quel decreto – l’applicazione retroattiva dell’interpretazione autentica con la conseguente caducazione di provvedimenti anteriori fondati su interpretazioni difformi – va segnalata con preoccupazione l’eventualità che si instauri nel futuro una prassi di questo genere”. Una lezione di civiltà giuridica, quella del ‘Foro italiano’, come non si può non attendersi da chi, scrivendo di imputati non ancora condannati, usa l’aggettivo “presunti”. Anche se si tratta di mafiosi. Scarcerazioni. Mafiosi. Ieri e oggi.