Come è andata in fallimento la banca di Verdini
La condanna - Sette anni per la bancarotta, due per truffa allo Stato
Associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita, truffa e violazione delle normative bancarie. Queste le accuse delle quali dovevano rispondere i 45 imputati per il crac dell’ex Credito Cooperativo Fiorentino, tra i quali Denis Verdini, che aveva guidato la banca dal 1990 al 2010.
Non presente alla lettura della sentenza, l’ex coordinatore del Pdl è stato condannato a nove anni di reclusione per la bancarotta di cui due per truffa ai danni dello Stato per i contributi irregolari ricevuti per le testate ‘Il Giornale della Toscana’ e ‘Metropoli’.
La prima ispezione della Banca d'Italia risale al 2010. La precaria condizione economica dell’istituto è subito evidente. Quel che non si sapeva ancora è che fosse dovuta alla disinvoltura con la quale la banca versava finanziamenti a imprenditori amici, tenendo su una fitta rete di clientele.
Due anni di amministrazione straordinaria non bastano: nel 2012 il tribunale di Firenze sentenzia il fallimento. Le attività retail, ovvero i conti dei risparmiatori, vengono rilevati da Chianti Banca. Nel frattempo parte l’inchiesta dei pm Luca Turco e Giuseppina Mione.
Dalla banca, considerata dai magistrati una sorta di bancomat personale del senatore di Ala (alleanza liberal popolare per le autonomie), le indagini si allargano alle attività editoriali di Verdini, che pubblicava ‘Il Giornale della Toscana’ come dorso regionale de 'Il Giornale', e il settimanali locale Metropoli.
Le due cooperative editrici delle testate (la Società Toscana Edizioni srl e la Sette Mari scarl), era l’ipotesi dell’accusa, sarebbero servite solo ad accaparrarsi fondi pubblici per l’editoria, non essendo affatto in regola con i requisiti. Nondimeno dal 2005 al 2009 le due società incamerarono oltre 4 milioni di euro di contributi.
Il 15 luglio del 2014 il gup Fabio Frangini dispone il rinvio a giudizio di tutti gli imputati. Vengono chiesti undici anni per Verdini e nove anni per gli imprenditori Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei, che avevano beneficiato anch’essi del “bancomat” del senatore.
Richieste di sei anni per l'ex direttore del Credito cooperativo fiorentino, Piero Italo Biagini, e per il parlamentare Massimo Parisi, amministratore delle due testate. Lo Stato domanda il risarcimento di 42 milioni per i contributi erogati, comprensivi di interessi. Il Monte dei Paschi di Siena richiede invece 48 milioni a Fusi e Bartolomei, che avevano ricevuto prestiti la ristrutturazione dei debiti delle loro aziende.
Per giungere al verdetto di oggi sono serviti sei giorni di camera di Consiglio, nei quali le toghe fiorentine hanno passato al setaccio le posizioni di 43 persone e due società, dopo 70 udienze e oltre 3.600 pagine processuali.
Dall’inchiesta è emersa la complessa rete di rapporti esistente tra il Credito cooperativo fiorentino e Fusi e Bartolomei, soci di una holding, la Hbf, che controllava decine di società, fra cui l'impresa di costruzioni Btp, la catena di alberghi Una, la Immobiliare Ferrucci, scrigno del comparto immobiliare del gruppo.
Secondo l'accusa, la banca aveva erogato decine di finanziamenti a società riconducibili agli interessi dei due imprenditori su contratti preliminari basati su operazioni fittizie o comunque irregolai. Un sistema che nel tempo avrebbe favorito una galassia di società - alcune fallite - contribuendo a svuotare il patrimonio di un istituto di credito che esisteva da cento anni.