di Maria Letizia D'Agata
Roma - "Fascisti? Per l'amor di Dio...siamo italiani, esuli, ma italiani e basta". Così esordisce Ferruccio Conte, esule istriano, dagli anni '50 residente nel quartiere Giuliano-Dalmata di Roma, che ha accettato di raccontare all'Agi la sua storia. Di fascismo e di politica non vuole sentir parlare, la storia non si può fermare e la sua è una famiglia che a un certo punto ha dovuto scegliere, ed è venuta via, con la morte nel cuore. "Sono nato a Dignano d'Istria, a dieci chilometri da Pola - spiega e siamo venuti via nel settembre del '48. Ricordo che mio padre, prima della partenza, mi portava chiodi arruginiti la sera per preparare di giorno le casse dove mettere dentro le nostre cose. E mi diceva 'Ferruccio datti da fare!'. E poi la sera, lui ed io componevamo le cassette per mettere le nostre cose. Il 22 settembre del 1948, in una giornata che definisco spaventosa, siamo venuti via, io bambino, mia sorella piccola in braccio a mamma, mio padre e nelle casse quel poco che riuscivamo a portare. Saliti sul treno per Trieste, in lontananza vedevamo il campanile del paese, un grande campanile, piu' alto di quello di Rovigno, e' quello piu' alto dell'Istria. Quel campanile lo vedevamo scomparire....lentamente...ecco quella è una sensazione che ti prende al cuore: partire, andare, ma dove? Andavamo verso l'incognito. A Trieste ci hanno lasciato due giorni, al silos Magazzino 18 e poi siamo andati al campo profughi di Latina. Li', dormivano in una enorme camerata ed erano state messe delle coperte per simulare i muri al fine di separare le varie famiglie. I servizi igienici in comune. Siamo rimasti due anni in campo profughi. Poi mio fratello che studiava in seminario e' diventato prete. Il vescovo gli ha assegnato la parrocchia a Leonessa e ci ha chiamato li'. Sembrava di esere in paradiso dopo essere passati per l'inferno. Venivamo trattati bene, mangiavamo decentamente mentre al campo profughi avevamo una tessera per prendere da mangiare, una specie di 'rancio', un pranzo che erano quattro sgommarelli di ministra....ma a Leonessa stavamo bene. Siamo andati a scuola".
"Dopo Leonessa - continua Ferruccio - siamo venuti a Roma e ho cominciato la mia vita al villaggio giuliano, dove sono giunto nel 1952. Come ci hanno accolto a Roma? In un primo momento non bene... Ma questo non era accaduto solo a Roma: al passaggio del treno da Trieste verso il Lazio e precisamente a Bologna, c'erano dei carrettini in stazione che passavano e vendevano acqua minerale e caffè. Mio padre si sporse per acquistare dell'acqua per noi ma la gente sulla banchina inizio' a gridare ' via via, questo e' un treno di fascisti, non dategli niente' e ci costrinsero ad andare via. Il capostazione fu costretto ad alzare subito il verde e il treno ripartì. Ma quali fascisti per l'amor di Dio...siamo esuli italiani per che per ragioni storiche siamo stati costretti a scegliere ed andare via". Alcuni parenti di Ferruccio sono scomparsi nelle Foibe: "Mio fratello si è salvato perché studiava in seminario a Vicenza - ha spiegato - per loro era un sovversivo in quanto prete, ha scampato le foibe per poco...Una sera sotto casa mia passava il corteo per andare da Tito, a Brioni, il giorno prima portarono un'immagine di Tito da esporre fuori dalla finestra che tutti dovevamo mettere. Mio padre si rifiuto' e allora ci hanno detto scegliete per la cittadinanza italiana e andate via. L'alternativa era perdere l'identita' di italiani, andare alle scuole slave, oppure andare via. Chi combatteva questa situazione, finiva male. Ho assistito al processo di incriminazione di miei cugini molto piu' grandi di me, furono presi e infoibati. Mia zia è morta in manicomio per il dolore ad Aversa,era la sorella di mio padre. Avevo 7 anni e ho tutto in testa". Gli inizi a Roma furono un po' difficili per la famiglia di Ferruccio: "ci veniva detto che venivamo a rubare il lavoro, come si dice oggi ai profughi... ma noi non siamo profughi, siamo esuli, siamo venuti via Italia per Italia. Quando guardo le previsioni del tempo, vedo l'Istria e penso che al paese mio magari piove... quello e' il paese mio...mio! Non posso farci niente. E' Italia per me. Dall'Istria e' andata via tanta gente che con il fascismo non aveva niente a che fare, c'era tante gente comune che non faceva politica e ha pagato lo stesso. Siamo italiani che ad un certo punto hanno dovuto scegliere. La scelta di venire via fa male al cuore, ma nel contesto, mentre consideriamo che Tito era cattivo e crudele, posso dire che e' stato un bene che ci abbia dato la possibilita' di firmare e venir via, altri venivano infoibati se resistevano, se volevano tenere fede ai loro ideali e andavano contro il regime. Noi abbiamo scelto. Siamo venuti via dall'Istria in 350mila".
Oggi cosa dire ai giovani? "Che la memoria è importante - spiega ancora Ferruccio - i ragazzi che erano all'oscuro fino ad oggi , devono sapere perche' noi siamo qui, perche' abbiamo lasciato tutto. Io giro per le scuole, vado spesso a spiegare. Avete idea di cosa vuol dire chiudere la porta di casa e andare via, via da casa tua? E una cosa bruttissima, orrenda. E io, nel 1975 sono ritornato lì ,ma non parlo croato, nessuno in famiglia mia lo parla. E alle persone che sono entrate in casa nostra abbiamo chiesto con cortesia di farci entrare un momentino, di farci vedere almeno le scale toccare un muro. Ma quando la nuova proprietaria ha capito, ci ha sbattuto la porta in faccia. E' stato uno schiaffo tremendo, mi sono uscite le lacrime, anche a mio fratello. Non volevamo andare in soffitta, solo vedere la rampa delle scale, magari la cucina. Non so cosa disse la donna in croato, ma ci ha sbattuto la porta in faccia, e non lo dimentico".
I giovani devono capire e ricordare, e la testimonianza resta viva nel ricordo dei figli degli esuli che poi, la trasmettono ai loro di figli: "Il 10 febbraio - spiega Marco, il maggiore di tre fratelli della famiglia Brecevich del villaggio Giuliano di Roma - è un giorno fondamentale per la memoria delle nostre genti e dovrebbe essere soprattutto una ricorrenza Nazionale di tutti e non una giornata che poi, rischia di essere usata dalla politica per altri interessi. I giovani devono conoscere e capire che questi gravi fatti "Esodo e Foibe" si sono svolti non durante la guerra terminata nel '48, ma durante i successivi 10 anni ed oltre. Si hanno notizie di 'punizioni' sino alla fine agli anni '60, verso le genti istriane fiumane e dalmate. La nostra gente ha pagato la sconfitta della guerra, lasciando le terre, non solo beni ma anche i morti. E ha anche pagato buona parte dei debiti di guerra. Molti non lo sanno e ci chiamano fascisti, perche' un politico, Togliatti disse: se fuggono dal paradiso socialista son fascisti ... per nascondere quanto quel tipo di socialismo stava facendo alla nostra gente".
Non tutti sanno, spiega Marco che gli esuli "arrivarono stipati come animali in carri merci in terra patria e che subirono attacchi politici e fisici, vissero in campi profughi stipati in piu' famiglie in condizioni igieniche precarie. Molti morirono per questo o per pazzia non riuscendo a vivere la nuova vita. Nostro nonno Pietro, un uomo silenzioso, si e' lasciato morire di nostalgia, visse una vita in silenziosa senza mai parlare male e senza rancori per nessuno, e senza piu' tornare sulla sua terra. Mio padre diceva sempre a noi figli e lo ha riportato nei suoi scritti lasciati prima di morire alla famiglia, questa cosa: 'Fate che quanto è accaduto a noi non accada mai più e fate sapere a tutti del nostro sacrificio per la liberta' di tutti'". Anche Gianclaudio Angelini, ha molto da raccontare: "La mia famiglia, gli Angelini, arrivò a Rovigno da Venezia a metà XVII secolo mentre la parte materna, i Benussi, sono a Rovigno da sempre. Una volta eravamo ricchi e potenti ma poi.. venne la guerra. Mio padre imbarcato sulla R.N. Cadorna dopo l'8 settembre abbandono' la nave risalendo la costa dalmata in formazione partigiana per tornare a casa. Una volta a Rovigno si accorse pero' che i partigiani nazional-comunisti di Tito avevano instaurato un'altra dittatura ancora peggiore di quella di Mussolini. Mio padre con altri giovani tentò, per quanto era loro possibile, di opporsi all'occupazione jugoslava; la loro azione piu' clamorosa fu di mettere una bomba dentro una stella rossa fatta di fiori per la festa di un primo maggio che, fortunatamente non esplose. Cosicché quando mia madre restò incinta convinse mio padre a fare come tanti altri istriani optando per l'Italia. Dalla domanda di opzione trascorrevano mesi in cui i miei due genitori che lavoravano tutti e due come impiegati del Comune di Rovigno vennero licenziati e venne inoltre ritirata loro la tessera annonaria. Infine nell'agosto del '51, avendo finalmente il permesso, lasciammo Rovigno col vecchio macinino a vapore facendo la solita trafila: campo di smistamento di Udine, quindi ex forte borbonico di Gaeta ed infine a Roma dai miei nonni materni che avevano trovata casa nella periferia di Centocelle. Nel 1956 finalmente ai miei venne assegnata un appartamentino nei padiglioni dell'ex Villaggio Operaio di Roma che, per merito di Oscar Sinigaglia, era diventato il Villaggio Giuliano Dalmata di Roma: un'enclave di circa 2.00 istriani, fiumani e zaratini. Da allora io ho sempre vissuto nel quartiere in cui mi sento ancora come in un? villaggio". E Angelini è tornato sui luoghi di origine: "Io ho incominciato a tornare insieme ai miei nonni a Rovigno nel '60. Da allora, non ho mai smesso di andarci quando ho potuto una o due volte l'anno. Ma solamente nel 1985 convinsi mia madre a venire con me: lei come tanti istriani avrebbe voluto chiudere col passato pensando a tutti i dolori avuti. Io invece non avendo vissuto in prima persona i traumi che hanno spinto l'80% dei mie concittadini ad andar via ho vissuto il ritorno in maniera diversa anche perche' sentivo che il mare, le pietre, le pinete, la cadenza del nostro dialetto erano parte di me". E Gianclaudio senza mezzi termini, afferma: "Lassu', ho lasciato il cuore. Si', il cuore, e me lo vado a riprendere una o due volte l'anno. I miei parenti oramai sono quasi tutti morti. Mi e' rimasta una bis cugina ma, grazie alla sopravvissuta comunita' degli Italiani mi posso ancora sentire a casa e 'favala' a la ruvignisa ca xi' cume l'italian'". (AGI)