Ellerine boș dӧnűyor, in turco vuol dire “ritorna a mani vuote”. E in questo spirito si può dipingere l’esito dell’incontro a Washington tra Donald Trump e Recep Tayyip Erdoğan. L’aspettativa era alta, la posta in gioco importante così come le personalità dei Presidenti. Due le issue sul tavolo: il sostegno armato ai curdi siriani del PYG, considerati da Ankara costola dell’organizzazione terrorista PKK, e l’estradizione di Fetullah Gulen, in autoesilio in Pensylvania dagli annii 90 e ritenuto la mente del fallito golpe del 15 luglio scorso.
Armi Usa a democratici siriani
Solo una settimana prima dell’incontro Trump ha approvato la linea del Pentagono di fornire armi pesanti alle forze democratiche Siriane (SDF), di cui lo YPG è un braccio armato, in vista dell’operazione per liberare Raqqa dall’ISIS. Secondo il colonnello degli Stati Uniti, John Dorrian, portavoce dell'armata degli Stati Uniti a Baghdad le spedizioni di armi ai curdi sarebbero state già predisposte e dovrebbero essere consegnate in tempi molto rapidi. Nella stessa sede si era anche avvallata l’ipotesi dell’eventuale chiusura di Incirlik, la base area turca usata dalla coalizione a guida americana nelle campagna anti ISIS. Il tutto sarebbe da leggersi in una prospettiva che costringerebbe Ankara a una posizione più defilata negli affari della regione, soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente russo Putin, fermo nel mantenere il supporto di Mosca al PYG.
Per Erdogan un nulla di fatto
Una sorta di richiamo al contentino si respira nella dichiarazione di Trump a sostegno di ogni sforzo per ridurre la violenza in Siria e creare una soluzione pacifica e di supporto alla nazione turca nella sua lotta contro [lo Stato islamico dell'Iraq e il Levante] ISIL e il [PKK fuorilegge del Partito dei lavoratori del Kurdistan"], facendo intendere un netto distinguo con il PYG .
Un nulla di fatto, quindi, per il primo obiettivo che Erdogan si era prefissato di raggiungere nel suo tentativo di persuasione del partner americano soprattutto se si considera che lo stesso giorno in cui la delegazione turca è arrivata, Il Washington Post ha pubblicato un articolo a firma Fetullah Gulen in cui lo stesso imam si presenta come uomo di pace e ringrazia l’ospitalità accordata dall’America. Ma non solo, dallo scritto emerge tutta la preoccupazione per il cammino democratico della Turchia, vittima della guida “scellerata” di Erdoğan inteso come unico responsabile delle dinamiche recenti vissute nel Paese.
Epurazioni e referendum, un peso
Certamente l’antipatia nei confronti di Erdogan trova terreno fertile in certi circoli occidentali, in particolare a seguite delle massicce operazioni epurative e all’esito del referendum del 16 aprile scorso che ha accordato pieni poteri al Presidente. Tuttavia, l’atmosfera di cordialità in cui si è svolto l’incontro – che ricalca anche lo spirito del meeting con Putin a Sochi - dimostra che il Capo di Stato turco non è così inviso dai Grandi. Certamente la lezione “imparata” o da imparare è che l’autoreferenzialità, anche sotto i migliori auspici, tende ad aprire una forbice tra le aspettative nutrite da retoriche politiche a uso interno - a volte eccessive nei toni - e la realtà dei fatti. Insomma, da leader egemone e pivot regionale oggi le manovre della Turchia sembrano essere sempre più condizionate dalle azioni di contenimento dettate da altri. Il che non significa che i rapporti con l’America siano ai minimi storici, ma che ogni sfera di collaborazione presenta vincoli precisi che richiedono sforzi di mediazione da ambo le parti.