AGI - La vittoria di Matteo Berrettini su Carlos Alcaraz, al terzo turno degli Australian Open, è uno di quei crocevia che dividono i campioni veri dagli aspiranti tali. Il tennista romano è sopravvissuto, dopo una battaglia di quattro ore, alla carica del diciottenne spagnolo, uno dei più seri candidati a scrivere pagine importanti del tennis che verrà. Un successo che Berrettini ha riacciuffato per i capelli, nel momento di maggiore difficoltà, riemergendo da un abisso che sembrava troppo alto da scalare.
Dopo aver perso i primi due set, Alcaraz ha tirato fuori tutta la spregiudicatezza di un teenager che ha già ottenuto la cittadinanza per giocare con i più forti, recuperando il gap iniziale e presentatosi all'avvio del quinto set con tutta l'inerzia a proprio favore. A questo si è aggiunta la caviglia di Berrettini che si gira, per fortuna lievemente, durante l'ennesimo tentativo di recupero difensivo.
Ma se saper vincere è una qualità di molti, saper sopravvivere è una freccia nella faretra di pochi. Berrettini, in quell'epico quinto set concluso solo al super tie-break, è diventato ancor più solido al servizio accorciando gli scambi ed uscendo dai binari su cui lo aveva condotto, con sapienza, Alcaraz, e il suo allenatore, Juan Carlos Ferrero.
Il campo da tennis si è trasformato presto in un ring, tra cazzotti di dritto e montanti di rovescio, colpi sotto la cintola (e la rete) e pugni chiusi verso i rispettivi angoli. A vincere, ai punti (pochi ma decisivi), è stata la maggior esperienza del tennista romano che, a differenza del rivale, nella sua pur ancor corta carriera, ha già imparato come assorbire le botte pre restituirle con gli interessi.
"Ho pensato solo a lottare, punto dopo punto. Sono molto felice. Carlos è incredibile, io alla sua età non avevo nemmeno punti Atp", ha ammesso a fine match. Esausto, certo, ma consapevole di ciò che aveva appena fatto.
Quanti come Santopadre?
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Quello rappresentato da Alcaraz non era un ostacolo da terzo turno. Berrettini ha vinto un match che poteva essere benissimo un otatvo o un quarto di finale, forse addirittura una semifinale. Arrivare alla seconda settimana era vitale per Berrettini che, in questi particolari Australian Open segnati dal Covid, può riempire il vuoto lasciato in tabellone da Novak Djokovic, espulso ancor prima di poter giocare il primo turno.
La scalata del più forte giocatore italiano, testa di serie numero sette, si fa ora interessante. L'occasione è ghiotta e l'appetito, game dopo game, vien davvero mangiando. Anche sui campi di cemento duro e bollente come quelli di Melbourne.
Prossimo avversario, agli ottavi, è un altro spagnolo, Carreno Busta. Solido, arcigno, coriaceo. Quelli che non vuoi mai affrontare perché sai che la partita, nove volte su dieci, ti torna sempre indietro. Uno stile di gioco simile a quello di Alcaraz ma con meno talento e fantasia. Sottovalutarlo sarebbe letale ma aspettarsi una vittoria, al di là della scaramanzia, è più che lecito.
A seguire, ai quarti, lo sfidante potrebbe essere uno tra l'eterno Monfils e un altro serbo, meno noto, come Kecmanovic. In un torneo dello Slam si può prendere molto di peggio. Poi, in semifinale, difficile uscire dal duo Zverev-Nadal con la prospettiva di sfidare Medvedev (a meno di exploit inaspettati di uno Tsitsipas o un Rublev. Sinner, ancora per scaramanzia, lo si cita solo per dovere) in finale. Al termine di questa maratona, insomma, l'Olimpo del tennis attende di essere raggiunto. Lo stesso sfiorato a Wimbledon, per intenderci.
Accanto a tutto ciò, però, incombe ancora l'incognita infortuni. Berrettini, che sembra aver superato il problema agli addominali che ha fortemente condizionato la sua ultima stagione, è un uomo pieno di muscoli di cristallo.
All'esordio degli Austalian Open, con l'americano Nakashima, era stato un virus intestinale a minare la sua stabilità in campo e le sue chance di vittoria. Minato, certo, ma senza metterlo defintivamente K.O. I ringraziamenti a un famoso medicinale a fine partita, con tanto di dedica alla telecamera, echeggiano ancora oggi facendo tirare un altro, l'ennesimo, sospiro di sollievo per il pericolo scampato.
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Chi segue Berrettini, del resto, ci ha fatto il callo. Per questo, vederlo a terra contro Alcaraz, dopo oltre tre ore di battaglia, con la caviglia tra le mani, è stato come un dejavu. Tra i fan c'era chi era già pronto a gettare la spugna. "È finita", come già in altre occasioni. "Ancora?", "Di nuovo?". Poi il fisioterapista, i denti stretti come i lacci delle scarpe e il ritorno in campo fino al successo finale.
Quello apparso agli Australian Open, a dirla tutta, sembra un Berrettini più tonico, dimagrito, più attento a gestire le energie. Più capace, insomma, di contrastare i problemi causati da avversari interni, quelli del suo fragile corpo, più imprevedibili e insidiosi.
Quella arrivata nella notte italiana, e nella calura australiana, è quindi una doppia vittoria per il tennista romano. Contro i fantasmi del futuro, rappresentati dagli arrembanti giovanissimi pronti a spodestare i giocatori già affermati, e quelli del passato, impersonati da infortuni e prematuri ritiri.
Le dita restano incrociate. Dall'altra parte del mondo il percorso di Berrettini è in divenire. Davanti a lui ancora quattro partite prima arrivare in cima e potersi, definitivamente, consacrare tra i più forti giocatori del circuito. A pensarci bene sarebbe anche ora.