Manu Ginobili si è ritirato. A 41 anni ha deciso di appendere le scarpette al chiodo e di smettere di calcare il parquet dei campi d’America, sua terra d’adozione, e d’Argentina, sua terra natia. E se pensate che sia un evento da poco, probabilmente non conoscete chi è stato, per il basket, Emanuel David Ginobili Maccari, detto Manu. Il suo ritiro è paragonabile a quello di Francesco Totti o a quello di Usain Bolt. Parliamo di icone. Quelle vere. Quelle che sembrano dover giocare per sempre solo perché è troppo difficile immaginarle in un altro contesto. E la sua è una storia di sfide e vittorie, iniziata 23 ani fa.
Today, with a wide range of feelings, I'm announcing my retirement from basketball. IMMENSE GRATITUDE to everyone (family, friends, teammates, coaches, staff, fans) involved in my life in the last 23 years. It's been a fabulous journey. Way beyond my wildest dreams. pic.twitter.com/3MLCUtmd6K
— Manu Ginobili (@manuginobili) 27 agosto 2018
Bahia Blanca
Ginobili nasce nel 1977 in un paese vicino alla Patagonia, affacciato sull’oceano. Buenos Aires è lontana più di 500 chilometri e il calcio, nella sua vita, è quasi totalmente assente. La famiglia vive di pane e basket. Il padre è allenatore-manager del Bahiense del Norte e in squadra giocano già i fratelli maggiori, Sebastien e Leandro. Manu è il terzogenito, mancino, il più piccolo. A 6 anni qualcuno gli mette inevitabilmente in mano un pallone. Sembra un finale scontato, visto il contesto, ma invece è una vera fortuna visto il talento che dimostra fin da subito. Qualcuno inizia a chiamarlo Narigon, nasone, il tratto fisico preponderante nella sua adolescenza. Non sarà né il primo, né l’ultimo soprannome che i compagni di squadra gli daranno. Come El Contusion, coniato da Brent Barry, anni dopo, a San Antonio. Dal canto suo, Manu si allena senza fermarsi cercando di imitare quel campione, Michael Jordan, di cui ha una gigantografia in camera. Lo incontrerà nella NBA, tanti anni dopo, rimanendo in campo con lui per poco più di un minuto. Il racconto di quell’emozione è in questo post del suo personale (e seguitissimo) blog.
A 17 anni esordisce nel massimo campionato argentino con l’Estudiantes di Bahia Blanca. La squadra retrocede risvegliando ancora di più l’orgoglio, la fame e la voglia di competizione del giovane argentino. Sono stagioni in cui gioca tanto e da titolare ma ha un sogno più grande che si chiama Europa. Lo racconterà quando alla fine arriverà, finalmente, la chiamata giusta dalla Calabria. “Seguivo i risultati del campionato spagnolo e quelli della Kinder attraverso Internet, perché pensavo che qui ci fossero il basket migliore e i club più importanti. Per questo, l'anno scorso, ho preso la cittadinanza italiana. Aspettavo che qualcuno mi chiamasse e per prima è arrivata una squadra spagnola. Avrei potuto parlare la stessa lingua, ma avevo dei dubbi e ho rifiutato. Poi, all'improvviso, è arrivata Reggio". La Kinder, per inciso, è la squadra di Bologna, dove gioca un altro argentino della “generazione dorata”, Hugo Sconochini. Entrambi avranno grande importanza nella vita “italiana” di Ginobili. Ma andiamo con ordine.
Reggio Calabria
Nel 1998, a Reggio Calabria, c’è una grande ambizione. La squadra è in Lega 2 ma vuole tornare nella massima serie. L’allenatore, Gaetano Gebbia, cerca una guardia tiratrice affidabile ma che sia anche un trascinatore in campo per i compagni. Forse quello è l’unico tassello che gli manca. Sente parlare di Ginobili ma per prendere una scelta definitiva chiede a un suo ex giocatore che nel frattempo è tornato in Argentina. Si chiama Giorgio Rifatti e la sua risposta non lascia adito a dubbi: “Prendilo a occhi chiusi”. Non è il primo argentino che passa da Reggio. La gente ha ancora negli occhi le giocate di Hugo Sconochini che nel frattempo, come detto, è andato a giocare a Bologna. Ed è proprio Sconochini a convincerlo che l’ambiente di Reggio sarebbe stato quello giusto. L’unico problema è il fisico. “Sono ancora flaco” dirà dopo le prime partite. Magro, poco muscoloso, si accorge di subire troppo per uno che ama avvicinarsi al canestro. Così si chiude in sala pesi e mette su quei muscoli che gli serviranno per competere con i grandi. Reggio vince il campionato anche se fallirà quella stessa estate. L’estate è quella del 1999, la stessa in cui Ginobili viene chiamato al draft NBA. Numero 5, secondo giro. San Antonio. Dall’altra parte dell’oceano c’è un general manager, R. C. Buford, che ha già messo gli occhi su di lui nonostante la giovane età e il talento ancora acerbo. Ma Manu sa che è ancora troppo presto per provare a misurarsi con i giganti.
Bologna
Nel 2000 Ginobili approda alla Virtus e finalmente può ambire a qualcosa d’importante. Ritrova Sconochini ma tutto il roster è di primissimo piano. Abbio, Rigaudeau, Danilovic Griffith, Jaric, Smodis, Andersen, Frosini. Dall’Australia, alla Francia passando per Stati Uniti, Serbia e Slovenia. In quello spogliatoio si parlano tante lingue ma tutti, alla fine, vogliono la stessa cosa. Vincere, e non sono in Italia. L’allenatore è quello giusto. Si chiama Ettore Messina e ha lo stesso carattere iper-agonista di Manu. I due si capiscono al volo. Tatticamente il gioco è quello più adatto per mettere in risalto le sue doti da leader. Non è un caso se quello sarà l’anno dello storico triplete. Scudetto. Eurolega (con il titolo di miglior giocatore delle finali). Coppa Italia. A Bologna scoppia la Ginobili mania. Ma dura troppo poco. L’anno dopo arriva il bis solo per la coppa nazionale. Quel meccanismo perfetto si è rotto e il giocatore argentino già pensa alla sua nuova sfida. Con una maglia nero e argento.
San Antonio
Alla fine del 2002, Ginobili decide di accettare la chiamata dalla NBA. Lascia l’Italia e si trasferisce nel Texas dove c’è grande attesa, due campioni fenomenali come Duncan e Robinson, e un allenatore difficile. Molto difficile. Si chiama Gregg Popovich e ha la fama di essere un duro. Uno che apprezza il lavoro e che punisce, anche duramente, gli errori. Non c’è grande spazio per l’improvvisazione e per la fantasia senza controllo. Per Ginobili adattarsi al suo gioco è difficile. Ma quando alla fine ci riesce diventa il giocatore perfetto: non ha paura, si prende le sue responsabilità, difende e lascia tutto in campo. Sono proprio il suo atteggiamento e la sua generosità a far digerire al suo allenatore le sue, sempre più rare, forzature. Fino alla fine.
Nell’estate che precede il suo esordio si giocano anche i mondiali di basket. Proprio negli USA, a Indianapolis. L’Argentina è una mina vagante, talentuosa e discontinua, ma arriva fino in finale quando viene fermata dalla rappresentativa della Jugoslavia, troppo forte per tutti. La stella di Ginobili brilla anche con la maglia albiceleste. A San Antonio iniziano così a pensare che quell’argentino venuto dall’Italia e quel francese, Tony Parker, arrivato un anno prima, si poteva iniziare a pensare in grande. La prima stagione sembra partire male. È costellata di infortuni e di piccole incomprensioni. Ginobili non riesce a dare continuità alle sue prestazioni ma è nei playoff che la musica cambia. Nessuno legge meglio di lui cosa succede in campo. Anche Popovich capisce che non può più fare a meno delle sue giocate. Così, uscendo dalla panchina, Ginobili diventa decisivo. San Antonio vince l’anello sconfiggendo in finale i New Jersey Nets. Non sarà l’ultimo trionfo della sua carriera. Gli Spurs vinceranno la NBA anche nel 2005, nel 2007 e nel 2014. Affidandosi sempre alle sue giocate.
Ci sei stato all’inizio, ci sei stato nel momento più alto... grazie di tutto. Per me sarai sempre un idolo! You were by my side at the beginning, you were by my side in the brighter moment... thanks for all. You’ll be my idol forever! @manuginobili pic.twitter.com/rVPQMyUjVV
— Marco Belinelli (@marcobelinelli) 27 agosto 2018
Le olimpiadi di Atene
Il trionfo dell’Argentina. Il momento più alto della nazionale sudamericana che vince l’oro (sconfiggendo l’Italia in finale) e infliggendo una sconfitta sonora agli americani. Una sfida che ancora oggi molti evocano ricordando i 29 punti di Ginobili, vero mattatore del match.
Quella di Ginobili è stata una carriera stellare che oggi finisce senza rimpianti. In una lettera al quotidiano La Nacion, il cestista ha voluto raccontare la storia degli ultimi 23 anni di partite, sfide e vittorie. “Da quando avevo 18 anni non ho mai smesso di giocare fino a un paio di mesi fa. Sarà strano, senza dubbio, ma penso di essere ben preparato per affrontare questa nuova vita”. Non una scelta facile che è stata comunicata innanzitutto proprio a Popovich: “Ho dovuto aspettare qualche giorno che tornasse dal suo viaggio in Europa, perché volevo che fosse il primo a saperlo”. Poi i numeri, precisissimi, di coloro che hanno intrapreso con lui questo viaggio: 254 compagni di squadra e 9 allenatori. Con un pensiero all’Italia e a tutti quelli che hanno creduto in lui. Ora, Manu, ha solo una promessa da mantenere. Una promessa contenuta in un video pubblicato qualche anno fa, dove già si parlava di ritiro (nonostante fosse ancora lontano). A Reggio Calabria lo aspettano. E siamo sicuri che non li farà aspettare troppo.