Gli Invalsi mostrano i mali della scuola. Ma l'università non sta meglio

I risultati delle prove Invalsi sono stati pubblicati da poco e hanno evidenziato problemi noti della scuola italiana: valutazioni superiori alla media nazionale al Nord Est, nella media al Centro, al di sotto nel Sud e Isole. Le differenze si consolidano ulteriormente se si osservano i dati inerenti ai quindicenni dove il divario in italiano raggiunge i 12 punti per il Sud e 24 per Sud e Isole. Se si guarda ai dati inerenti alla matematica la differenza sale addirittura a 24 e 35 punti rispettivamente.
Proprio per la matematica la situazione si dimostra più urgente e preoccupante. Nonostante le possibili giustificazioni alle difficoltà incontrate dai nostri ragazzi in tale contesto, è pur vero che le prove fornite cercano di sollecitare abilità diverse, dall’esercizio di quelle argomentative alla identificazione di strategie di risoluzione dei problemi e questo dovrebbe consentire a tutti di raggiungere risultati accettabili. Purtroppo così non è ed è compito di insegnanti e ricercatori comprendere come facilitare lo sviluppo di determinate abilità e competenze, necessarie, in prospettiva, allo sviluppo del Paese nella sua interezza e complessità. La questione infatti non riguarda solo l’opportunità di ottenere un posizionamento migliore nelle classifiche nazionali e/o internazionali, ma interessa un problema più ampio che va a incidere sul progresso scientifico e tecnologico generale.
I dati delle prove Invalsi rappresentano i sintomi di una malattia ben più grave che non ha intaccato solo la scuola italiana, purtroppo. Le radici di tale disagio si devono rintracciare nella stessa Università che ha il compito di formare le classi dirigenti del paese e, ovviamente, gli stessi insegnanti, chiamati a sollecitare abilità e competenze di cui loro stessi non dispongono e che i ragazzi non possono sviluppare, se non correttamente sollecitati.
Il calo delle iscrizioni all’Università è a dir poco preoccupante e pone il nostro paese ben al di sotto delle medie europee. La percentuale più alta delle persone che hanno conseguito un titolo di studio di livello terziario sono collocate nel Regno Unito (Outer London – South 69,3% nel 2015). Le altre regioni dove si registra un livello alto di istruzione terziaria sono in Danimarca, Irlanda, Francia, Paesi Bassi, Polonia, Finlandia, Svezia e sono spesso associate ad aree ad alta concentrazione di sviluppo nell’ambito scientifico e tecnologico. La percentuale più bassa (sotto il 20%) si registra nelle zone meridionali e orientali dell’Unione europea e quattro di queste aree sono rappresentate da regioni italiane del Sud (Puglia, Campania, Sardegna e Sicilia), a ulteriore riprova del circolo vizioso che riporta ai risultati delle prove Invalsi in quelle Regioni.
Se gli studenti universitari diminuiscono, in particolare nelle aree più depresse dal punto di vista dello sviluppo scientifico e tecnologico, non meno confortante appare lo stato del corpo docente universitario sempre più anziano. Dal 2009 al 2015 è diminuito del 12% e l’età media è aumentata di circa 7 anni, attestandosi a quasi a 53 anni di età.
Professori anziani e poco motivati difficilmente si impegnano in ricerca e sviluppo. Va certamente considerato anche che, come si legge nell’ultimo rapporto Anvur sullo stato dell’Università italiana, La quota del prodotto interno lordo (PIL) dedicata in Italia alla spesa in ricerca e sviluppo (R&S) è rimasta stabile nell’ultimo quadriennio (2011-2014), confermandosi su valori molto inferiori alla media dell’Unione Europea e dei principali paesi OCSE. L'Italia con l'1,27% si colloca solo al 18esimo posto (con una quota uguale alla Spagna) tra i principali paesi OCSE per il quadriennio 2011-2014, con valori superiori solo a Russia, Turchia, Polonia e Grecia, ben al disotto della media dei paesi OCSE (2,35%) e di quelli della comunità europea (2,06% per UE 15 e 1,92% per UE 28).
Complessivamente, permane una significativa distanza tra la quota dell'Italia del contributo nazionale alla dotazione finanziaria del programma quadro (12,5% dopo la correzione effettuata ex post in favore di alcuni paesi) e i finanziamenti ottenuti (8,1% del totale erogato).
Tale risultato riflette il tasso di successo (10,6%), significativamente inferiore rispetto ad altri importanti Paesi europei, mentre il tasso di partecipazione alle proposte, 12,7%, è in linea con la percentuale di contribuzione alla dotazione finanziaria. Questi dati determinano un ritorno sul territorio nazionale di 0,66 centesimi (0,71 teorico) per ogni euro investito dall’Italia nel programma quadro.
A livello di programma di finanziamento, il divario maggiore si registra nel programma ERC del pilastro Excellent Science, dove la percentuale di progetti collocati in Italia (in termini di finanziamenti) si ferma al 5% e il tasso di successo italiano è minore della metà di quello medio complessivo.
Il divario tra contributi nazionali e finanziamenti ottenuti è almeno in parte il riflesso della esigua numerosità del personale direttamente o indirettamente dedicato alla ricerca. L'analisi dell’Anvur sulla capacità dell’Italia di accedere ai finanziamenti europei nell’ambito del programma quadro denominato Horizon 2020 (H2020), che rappresenta l’ottavo ciclo pluriennale di programmazione coordinato a livello comunitario per il settennio 2014-2020, si focalizza sui primi due anni di programmazione (2014-2015). Mediamente, l’entità del finanziamento attratto dalle istituzioni italiane, sia nel ruolo di coordinatore sia nel ruolo di partner di progetto, risulta inferiore alla media UE (del 27% per il finanziamento dei coordinatori, in diminuzione rispetto all’analogo dato rilevato nel settimo programma quadro).
Risulta chiaro dunque che andrebbero sostenuti e valorizzati quei docenti, votati al sacrificio, che si impegnano nella ricerca internazionale in particolare, ma purtroppo la struttura perversa di procedure di reclutamento e avanzamento di carriera non sembra tenerne conto. Si continuano a premiare più facilmente gli studiosi che rispondono alle logiche di sistema nazionale, valorizzando la produzione di manuali teorici mediocri ma “corposi” e si tende a mortificare chi, pur ottenendo riconoscimenti internazionali e fondi di ricerca frutto della partecipazione a bandi competitivi di carattere internazionale, pubblica sì gli esiti delle attività empiriche, ma pecca sul numero di pagine.