Si fa un gran parlare del concetto di “bene comune”, e sulla necessità di offrire, ciascuno, il proprio contributo per la collettività. Quando si parla di scienza, spesso il dibattito verte sulla definizione del “confine” da tracciare, e rendere invalicabile, per giustificare studi, scoperte o approcci rivoluzionari.
Colpisce non poco, quindi, ciò che emerge da un recente sondaggio condotto da PoliticApp Swg, che ribalta il punto di vista e considera la scienza stessa come un bene comune da tutelare e su cui fare grande affidamento.
Per l’85 per cento dei cittadini intervistati la scienza è un bene pubblico e “va affermato ed esteso il diritto di ogni essere umano alla conoscenza”; non da meno, il 75 per cento ritiene che il futuro dell’umanità dipenda, ancora più che in passato, dallo sviluppo della scienza, e sempre un’alta percentuale degli intervistati, l’84 per cento, crede che nel corso del tempo la scienza, nelle sue diverse espressioni disciplinari, abbia offerto “grandi contributi al miglioramento della vita degli esseri umani”.
Nell’epoca delle fake news sembra quindi salvo – e saldo – almeno per ora, il concetto che la scienza sia la risorsa più efficace di cui l’uomo dispone per affrontare le sfide globali. Ed ecco quindi come entra in gioco la necessità di comunicarla in maniera corretta: oggigiorno, basta accendere la televisione o fare un rapido giro in rete per “entrare” nel fast-food della scienza.
Varcate le soglie del laboratorio, le distanze si accorciano, i media trasmettono a vaste platee gli esiti e le potenzialità di studi e ricerche, portando i cittadini a familiarizzare con un certo tipo di gergo e optando – troppo spesso – per un eccesso di sintesi e semplificazione.
Indagine Swg, 11 dicembre 2018.
Non che questo tipo di rischi, assieme al dilagare dei movimenti anti-scientifici – siano una prerogativa del nostro tempo: nel 1980, Isaac Asimov disse che l’anti-scienza era il risultato della errata concezione democratica “la mia ignoranza è uguale alla tua conoscenza”.
E infatti, la scienza non è in conflitto con la società, ma è da sempre soggetta a “polarizzazione” – quando non strumentalizzazione – dunque condizionata dall’atmosfera politica. Questo genera opinioni, a volte distorte, che una volta radicate fanno fatica ad essere confutate: anche in un Paese “ad alto tasso di qualità” della ricerca scientifica come è, in effetti, il nostro.
Sì, perché l’Italia vive un paradosso molto particolare: facciamo ottima ricerca, ma è ancora troppo poca. Negli ultimi dieci anni gli investimenti pubblici nel comparto ricerca e sviluppo sono notevolmente calati (fonte: Nature), mentre la percentuale delle pubblicazioni scientifiche nella top 10 a livello mondiale è in progressiva crescita.
Indagine Swg, 11 dicembre 2018.
Il Paese può contare su un sistema della ricerca di eccellenza: l’Italia è primo Paese al mondo per numero di citazioni per ricercatore (fonte: THE European House – Ambrosetti), al terzo posto in Europa per citazioni in campo medico; cresce più velocemente di Regno Unito e Germania, con punte di eccellenza in campo oncologico (nel 2017, siamo stati al primo posto in Europa per citazioni in Oncologia).
I ricercatori italiani sono tra i migliori al mondo: nel bando ERC Starting Grants 2018 dedicato ai giovani ricercatori promettenti l’Italia è la seconda nazione più rappresentata. Per non parlare dei Consolidator Grants ERC, che ha premiato ben 15 progetti italiani, di cui uno, tanto per fare un esempio, presentato dal brillante team di Francesco Ricci di “Tor Vergata”, che si è aggiudicato 2 milioni di euro. Non male per un Paese che ha un numero di ricercatori pari a meno di un terzo della Germania e meno della metà della Francia, con una capacità brevettuale delle imprese italiane, nell’ambito delle Life Sciences, inferiore rispetto ai principali Paesi europei.
E dunque, come si compone questo puzzle ricco di contrasti, contraddizioni, opinioni, sottodimensionamenti e punte di eccellenza?
Indagine Swg, 11 dicembre 2018.
Il collante non può che essere che uno: la conoscenza. È solo mediante la conoscenza che il singolo può sviluppare senso critico e diventare parte attiva della società.
È difficile oggi per uno scienziato produrre “conoscenza” e soprattutto veicolarla nella società. Basti pensare che oggi si pubblica un articolo scientifico ogni 20 secondi. In un certo senso abbiamo una sovrabbondanza di conoscenze e informazioni. "Ottenere informazioni da Internet è come cercare di bere un bicchiere di acqua da un idrante antincendio" afferma Mitchell Kapor.
La superabbondanza di conoscenza è certamente una buona cosa, ma al tempo stesso, una cattiva notizia. La buona notizia è che non abbiamo mai saputo tanto di noi stessi, del nostro pianeta e della nostra società. Ma nello stesso tempo le troppe fonti, i troppi metodi, i vari livelli di credibilità, i professionisti della disinformazione e i loro supporter, rendono talvolta inefficace o difficoltoso l’avanzamento della scienza. “Stiamo annegando nelle informazioni, mentre muoriamo di fame per la saggezza”, ha affermato in un suo libro il grande biologo, Edward O. Wilson. Solo la conoscenza, la corretta comunicazione, e una attenzione particolare ai fatti possono renderci immuni all’anti-scienza.
Per questo abbiamo bisogno di persone capaci di sintetizzare i concetti, di mettere insieme le informazioni giuste al momento giusto, di pensare in modo critico e fare scelte importanti con saggezza e soprattutto con raziocinio e non pulsioni o logiche politiche o di convenienza effimera. Qualche settimana fa, Jeremy Berg, in un editoriale pubblicato su Science che ha fatto il giro del mondo, ha posto un quesito particolarmente provocatorio, stimolandoci ad immaginare un mondo “senza fatti”. Ecco, i fatti: è da qui che bisogna ripartire per riprendere le coordinate di una giusta rotta, anche in ambito scientifico, senza lasciarsi condizionare da sensazionalismo e strumentalizzazioni.
Indagine Swg, 11 dicembre 2018.
Pensiamo all’ormai sterile e prettamente politico dibattito sui vaccini: possiamo dire quello che vogliamo in qualsiasi contesto, arena, da qualsiasi pulpito, ma al ritmo di 5 vite al minuto salvate dai vaccini (stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), le carte sono subito scoperte.
Da una parte, la scienza. Dall’altra, parole prive di fondamento e armate di pericolo. Parole che offendono quei 10 milioni di bambini al di sotto dei tre anni che ogni anno, senza fare rumore, muoiono: quanti ne potremmo salvare, solo aumentando il numero dei vaccini già in circolazione!
Ecco perché la comunicazione in ambito scientifico è così importante. E perché non solo è utile, ma imprescindibile ormai che uno scienziato sviluppi anche competenze che vanno al di là del proprio lavoro, imparando, ad esempio a come e cosa comunicare. Nelle parole di Raina M. Merchant e David A. Asch (University of Pennsylvania): “I ricercatori oggi devono anche essere proattivi per far sì che i messaggi fuorvianti non vadano a competere con quelli corretti”.
In sintesi, non solo una società con base “scientifica” costituisce un elettorato più saggio e consapevole, ma una comunicazione scientifica efficace pone le basi per una futura generazione di scienziati. E di quelli, bravi, indipendenti e innovativi, ci sarà sempre un gran bisogno.