La comunità tutta, con giudizio unanime, ha emanato la solenne sentenza: “Plastica traditrice, prima ti abbiamo creato, dato vita, osannato, adesso ci tradisci soffocando inermi animali, invadendo mari, spiagge e boschi. Cara plastica, hai sottovalutato la capacità di noi umani, possiamo fare a meno di te. Abbiamo creato la plastica rinnovabile”. Quello che si legge dai titoli altisonanti dei giornali, che “dichiarano guerra alla plastica”, suona più o meno come questa sentenza. Si sa, noi umani siamo bravi a trovare dei capri espiatori. Se ci troviamo in queste condizioni è per colpa della plastica, che si è materializzata dal nulla per volere del divino petrolio.
Si fa poi presto a dire rinnovabile! Questa per me è l’ulteriore prova che noi umani “parlamm’ a schiovere”. Questo folcloristico modo di dire, per noi napoletani indica il parlare a sproposito, parlare a vanvera. Una pioggia incessante di parole senza senso, prive di un significato costruttivo. Questa opinione si consolida dentro di me quando sento usare l’aggettivo “rinnovabile”. Nella narrativa della plastica “rinnovabile”, i concetti basilari che si esprimono sono quelli di “decarbonizzazione dei processi economici attraverso un processo circolare di bio-economia in sostituzione del processo lineare che caratterizza l’attuale economia (estrazione-rifiuto)”.
La bio-economia
Questa narrativa ha bisogno di doverosi chiarimenti. Primo, ho già fatto questa puntualizzazione e continuerò a farla finché sarò lontano dall’equilibrio termodinamico: il termine bio-economia è stato coniato nella seconda metà degli anni settanta dello scorso secolo da Georgescu-Roegen ad indicare che i modelli socio-ecologici si devono strutturate sulla base dei vincoli imposti dall’ecosfera. La bio-economia, come viene erroneamente ed in maniera unanime definita oggi, è invece l’economia basata sulle risorse della biosfera.
Un pollo, una mucca, una mela, una pianta di grano, un albero, sono tutti esempi di elementi della biosfera che possiamo potenzialmente utilizzare come fonte di cibo o di materie prime e quindi entrare nel grande calderone della nostra economia. Quindi è preferibile utilizzare la definizione che era in auge fino a qualche anno fa, che nell’idioma anglosassone si esprime come “bio-based economy”. Lo so, in Italiano suona male e soprattutto la traduzione viene lunga e, dal momento che abbiamo sempre fretta, non abbiamo voglia di dire “economia basata su elementi biologici”.
Le risorse fossili
Riflettete un attimo! La nostra economia non ha mai smesso di essere bio-based. Abbiamo sempre bisogno di risorse “bio” per nutrirci e per ottenere alcune materie prime. Soltanto che la nostra economia era esclusivamente bio-based fino alla scoperta della risorsa fossile. Questa scoperta ha messo a disposizione dell’umanità una enorme quantità di energia e materie prime dai costi monetari bassi e per la cui estrazione è necessario un limitato impegno lavorativo. Innescando così un drastico e critico sconvolgimento dei nostri sistemi socio-ecologici: aumento esponenziale della popolazione mondiale e degrado ambientale. Rendo noto che tutte le risorse fossili sono comunque scarti bio che si sono accumulati nel tempo e che per effetto di complessi fenomeni bio-geologici sono diventati quello che noi oggi estraiamo.
Non soltanto il fossile ha rappresentato l’immissione di nuove risorse ma ha anche accelerato lo sfruttamento delle risorse bio: cibo, legna ed altro. La possibilità di disporre di tanta energia e materia prima a basso costo, ha garantito al tessuto sociale di investire sempre meno lavoro umano nell’estrazione di energia, di materie prime e finanche per la produzione di cibo, dal momento che l’energia disponibile poteva e può alimentare “la muscolatura tecno-meccanica” per fare lavori che prima spettavano alla “muscolatura umana”.
Il lavoro umano si è quindi concentrato principalmente nelle città, soprattutto in forma di servizi per inventare tante diavolerie, tra le quali la plastica, garantendo la crescita economica (l’80% del PIL globale si produce nelle città), obiettivo al quale ambiamo tutt’oggi. Quindi tutto quello che è necessario per far funzionare questo motore economico montato nella città viene prodotto dall’esterno ed arriva dentro comodi involucri di plastica, alluminio ed altro. Quando non ci serve diventa fastidioso rifiuto. Questo aspetto mette in evidenza una delle tante criticità della bio-based economy, vale a dire considerarla come una strategia alternativa inserita sempre in una logica di crescita economica.
Economia lineare
Questo si riallaccia alla seconda puntualizzazione: l’economia lineare è quella che ha fatto crescere l’economia dei paesi sviluppati. Da ecologo porto sempre ad esempio i sistemi naturali. Ad esempio un bosco o un lago sono ecosistemi che funzionano in maniera circolare, per questo motivo non crescono, la loro biomassa si stabilizza in funzione dell’energia solare che entra e dalla velocità di riciclaggio dei nutrienti. Se ad esempio in un lago entra un surplus di energia e di nutrienti, il sistema si eutrofizza e cambia la sua struttura e la sua capacità di funzionare correttamente in maniera circolare generando molti rifiuti.
Ecco! La nostra società alla ricerca di una crescita perpetua è come un lago eutrofizzato. Morale? Se vogliamo crescere economicamente non possiamo essere bio-based, perché dobbiamo: (i) generare un gradiente altrettanto efficace come quello del fossile, il che vuol dire estendere le nostre attività di sfruttamento su superfici maggiori (vi ricordo che il nostro pianeta è limitato); (ii) attendere i tempi di rigenerazioni dettati dalla natura, se abbiamo poi fretta e non vogliamo attendere dobbiamo investire altra energia.
Decarbonizzazione
Terzo chiarimento: decarbonizzazione. Cosa vuol dire? Posso capire questo concetto se applicato al fossile come fonte di energia, ma meno come fonte di materie prime. Se rinunciamo al fossile come fonte energetica, evitando la sua combustione, riduciamo le famose emissioni di biossido di carbonio in atmosfera. Si possono in alternativa considerare energie carbon free, pagando però la loro bassa efficienza, dal momento che le nostre abitudini di vita sono ormai tarate sulla densità di potenza del fossile che è mediamente 1000 volte più grande delle fonti alternative.
Meno felice è invece il concetto di decarbonizzazione applicato alle bio-plastiche. Le plastiche, sia fossili che bio, sono dei polimeri fatti prevalentemente di carbonio, quello che cambia è la fonte di approvvigionamento del carbonio. Oggi possiamo disporre di diverse fonti di “carbonio bio”. Ad esempio la maggior parte delle attuali borse da spesa sono ottenute da amido di mais. Il mais è una pianta che usiamo per scopi alimentari, quindi il pianeta rinuncia al cibo per creare buste di plastica per contenere cibo.
I terreni marginali
Bizzarro, non trovate? C’è sempre uno scenario alternativo, invece di usare piante ad uso alimentare possiamo sempre utilizzare piante non-food da coltivare su terreni così detti marginali. I terreni marginali sono aree coltivate che hanno perso la loro efficacia produttiva e quindi di profitto. Con la sola eccezione di terreni marginali naturali, che l’uomo si è sempre guardato bene dall’utilizzare, i suoli sono diventati tali per effetto dell’azione umana attraverso l’inquinamento e soprattutto per l’eccessivo sfruttamento agricolo.
Vi ricordo che noi viviamo sempre in un pianeta finito ed abbiamo sempre bisogni di mangiare, quindi si sfrutteranno altre terre ed anche queste, prima o poi, diventeranno marginali. Inoltre la narrativa a sostegno del fatto che l’uso delle terre marginali può rivitalizzare l’economia rurale non regge. Utilizzare queste terre vuol dire convertire il contadino da produttore di cibo a produttore di materie prime che non saranno mai concorrenziali, da un punto di vista economico, con quelle fossili. Il sistema per funzionare ha bisogno di incentivi pubblici, che potranno essere garantiti soltanto se c’è una società energivora che fa andare avanti l’economia.
Una terza strategia di approvvigionamento e quella degli scarti. Avete idea di quanta plastica si produce annualmente nel globo? Circa 350 milioni di tonnellate in un anno. Fatevi i conti. Qualcuno potrà controbattere che almeno si produce plastica biodegradabile. Anche questa osservazione è opinabile. Soltanto una piccola frazione di quel numero spropositato che ho citato entra nel ciclo di fine vita del prodotto con caratteristiche di degradabilità. La quasi totalità deve essere trattata con additivi per garantire una maggiore resistenza e quindi sopravvivenza nel tempo, per poi seguire il ciclo di fine vita simile a quello delle plastiche ordinarie. Inoltre il processo “industriale” di compostaggio ha molte criticità (per motivi di spazio non entro nel dettaglio).
Come si può evincere, la questione non è di facile risoluzione. Il problema principale risiede nel fatto che il nostro attuale modello socio economico si è strutturato sulle risorse fossili, “viziando” quindi le nostre abitudini. Qualunque soluzione bio, green, rinnovabile, chiamatela come volete, difficilmente riuscirà a mantenere questo potente motore economico.
Vi faccio notare che la FAO ha valutato che entro il 2050 la popolazione mondiale dovrebbe toccare 9 miliardi di unità, con la conseguente necessità di aumentare del 60% la produzione di cibo, rispetto a quella del 2005. Serve altro per farvi riflettere?