È da qualche anno ormai che ricercatori americani ed europei cercano di utilizzare il DNA per il riconoscimento facciale a partire da una traccia di DNA lasciata ad esempio in luogo di delitto. La “fenotipizzazione” del volto umano a partire dal DNA, non è una cosa semplice e richiede l’acquisizione di molti dati biologici tra cui alcuni certi come il sesso, altri deducibili come l’età, il peso corporeo, la circonferenza addominale e altri. In molti casi, la predizione di alcune caratteristiche fisiche dedotte dal DNA hanno trovato corrispondenza e sono stati anche utilizzati a scopo forense (colore degli occhi, colore capelli, origine etnica).
Ma il volto umano è un po’ più complesso, essendo definito da più caratteristiche distinte (ad esempio occhi, naso, mento e bocca), che vengono determinate durante lo sviluppo da una serie di interazioni molecolari e ambientali non del tutto ancora note.
In una città piccola (per gli standard cinesi) e polverosa della regione dello Xinjiang, alla frontiera occidentale della Cina, le autorità hanno autorizzato uno studio molto esteso per valutare e mettere a punto un metodo di riconoscimento facciale attraverso l’analisi del DNA. Gli scienziati cinesi vogliono “fenotipizzare” il viso delle persone di oltre un milione di individui appartenenti al gruppo etnico degli uiguri (un'etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina) attraverso lo studio del loro DNA.
L’avvio di questo studio ha suscitato come prevedibile polemiche e dibattiti di natura etica, di privacy, di sicurezza e di discriminazione sociale malgrado le autorità abbiano dichiarato che la ricerca prevede donazioni volontarie di campioni biologici che sono stati ottenuti dopo aver firmato un consenso ad hoc. Altri ritengono invece che molte persone (magari quelle in stato di detenzione) vengano costretti a donare il proprio DNA e il loro “viso” per la ricerca. In questo modo, identificare un “uighuraro” attraverso una traccia di DNA lasciata in un determinato luogo in mezzo magari a tracce di altre persone appartenenti ad altre etnie.
Disegnare il viso di qualcuno basato esclusivamente su un campione di DNA sembra fantascienza. Ma, non lo è. La polizia del Maryland (USA) recentemente ha utilizzato la fenotipizzazione del DNA per identificare la vittima di un omicidio. Nel 2015, la polizia della Carolina del Nord, sempre negli Stati Uniti ha arrestato un uomo per due omicidi. Grazie a tracce di Dna ritrovate sulla scena del crimine è stato possibile individuare alcuni tratti del volto: il colore degli occhi (castani), il colore della pelle (chiara), il colore dei capelli (scuri) e persino la presenza di lentiggini. L'uomo si è dichiarato poi colpevole.
Ma a che punto siamo sulla fenotipizzazione del DNA? Attualmente i dati pubblicati e disponibili suggeriscono cautela. Molto spesso le immagini facciali derivate sono “amorfe” io direi anche amìmiche per sembrare il volto replicato di una persona. Certamente alcune caratteristiche facciali derivate dall’origine etnica (caucasico, asiatico, nero…) sono deducibili con buona approssimazione, ma Il DNA non può indicare l'aspetto tridimensionale delle persone, oppure l'età, il peso o una plica nasolabiale che i francesi chiamano anche "ruga dell'amarezza" perché dà al viso un aspetto triste.
E’ possibile che la tecnologia di “imaging” confrontando milioni di volti computerizzati possa, nel prossimo futuro rendere un po’ meno amìmico il volto di una persona derivato dal DNA contenuto da un banca dati di milioni di campioni analizzati e utilizzabili per confronti. La Cina possiede oggi il database di DNA più grande del mondo, con oltre 80 milioni di profili disponibili e non sorprende pertanto che molte società di genomica di tutto il mondo cercano di collaborare con la Cina per gestire una grande quantità di dati (i dati sono come l’oro di un tempo!) e sviluppare tecnologia da mettere poi sul mercato, in modo che sia stata validata su enormi numeri. Infatti soltanto una rigorosa validazione scientifica potrebbe, in un futuro non lontano, aggiungere al riconoscimento biometrico oggi utilizzato, anche il riconoscimento facciale derivato dal DNA. Al momento molte nazioni in tutto il mondo costruiscono banche di DNA a scopo identificativo.
Nel 2015, il Kuwait ha approvato una legge che impone l’acquisizione del profilo del DNA di tutta la sua popolazione compresi gli stranieri che visitano il Paese. Nel gennaio di quest'anno, il Kenya ha approvato una legge che consente al governo di richiedere a tutti i cittadini dati biometrici, compresi il profilo del DNA. In entrambi i casi tuttavia forti opposizioni di natura etica hanno limitato l’applicazione massiva delle informazioni.
In Italia la banca dati del DNA a scopo forense è operativa dal 10 giugno 2016. È collocata presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell'interno direttamente collegata al Laboratorio centrale che invece è dislocato presso il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria – Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Ministero della Giustizia. Le tecniche e le modalità di acquisizione dei campioni biologici, nonché la gestione e tipizzazione dei profili del DNA sono delineate in modo chiaro a completa garanzia della privacy con laboratori autorizzati e verificati dal Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita.
La banca dati del DNA in Italia a scopo forense è circoscritta soltanto ad acquisire informazioni genetiche che permettono di attribuire un profilo di DNA ad una persona piuttosto che ad un’altra e non permette di ricavare altre informazioni biologiche. Non potremo quindi sapere niente delle sue caratteristiche biomediche o sociali o ricostruire un viso leggendo il profilo di DNA conservato in questa banca.
Tuttavia la conservazione del DNA pone, in linea meramente teorica, la possibilità che si possano effettuare altri test, non di natura forense, per carpire informazioni biomediche rilevanti. I controlli previsti rendono trascurabile questa possibilità. Personalmente ritengo necessario agire sul piano dell’informazione alla popolazione, cercando di far comprendere che i dati del contenuti del proprio DNA sono dati sensibili e devono essere trattati in modo accurato perché riguardano non solo l’individuo, ma anche i suoi familiari e il suo gruppo etnico di appartenenza; è necessario affermare, soprattutto nella comunità scientifica, che la Dichiarazione di Helsinki (un insieme di principi etici riguardanti sperimentazione umana) sia applicata a tutti i dati biometrici a fini identificativi.
Le pubblicazioni su questi temi considerate non etiche devono essere ritrattate ed eliminate dalle banche dati.
Proprio questa settimana, importanti editori scientifici quali Springer Nature (che edita fra le altre la rivista Nature) e Wiley, hanno annunciato di voler rivalutare studi da loro già accettati e pubblicati che riguardassero gruppo etnici di Tibetani Uighuri e altre minoranze etniche. Un atto importante, utile a scongiurare che la ricerca possa celare – o essere piegata a – scopi di controllo, repressione, assoggettamento di popolazioni svantaggiate. Una reazione che esprime l’allarme provocato nella comunità scientifica internazionale per il pericoloso potenziale di questa particolare tipologia di studi, motivato anche dalla tipologia dei soggetti coinvolti e per i dubbi sulla liceità delle modalità di analisi e trattamento dei dati raccolti.
A questo proposito, ritengo che sia davvero auspicabile favorire “l’open access” scientifico, ovvero la possibilità di accedere ai dati di laboratorio in ogni momento. In questo modo è più facile e trasparente individuare chi sta lavorando e su quali dati lo sta facendo. In ogni caso tutti noi dobbiamo stare attenti a fornire i dati personali compresi il proprio materiale biologico senza garanzie di privacy e soprattutto senza sapere quale destino avranno le informazioni fornite.
Le banche del DNA saranno sempre più importanti a fini medici e costituiranno la base per la medicina di precisione che mira a modellare la prevenzione, la diagnosi e la cura delle malattie sulle specifiche caratteristiche del singolo o di un gruppo di persone, con l’obiettivo di costruire una medicina accurata, predittiva, preventiva e partecipata, in modo da puntare sulla dimensione complessiva dell’individuo.
I risultati sono già evidenti: farmaci oncologici diretti contro target molecolari specifici (es. contro tumori al seno, leucemia mieloide cronica, alcune forme di tumori del polmone, del colon-retto o il melanoma); farmaci sviluppati per pazienti portatori di specifiche mutazioni (es. fibrosi cistica); test genetici preliminari per valutare la risposta a terapie antiepilettiche, antiretrovirali e anticoagulanti.
Dobbiamo gestire quindi in modo intelligente la gigantesca quantità di dati che avremo a disposizione nei prossimi anni senza fermare o censurare la scienza, ma integrandoci con essa favorendo il progresso necessario alla società. Il progresso va conquistato giorno per giorno perché non è assicurato sempre: è una forma di energia, e come tale inarrestabile. Salvifica se ben instradata, pericolosa se mal governata o utilizzata per gli scopi sbagliati.