In Europa esistono diversi casi nazionali eccellenti di ricerca e innovazione che attraggono risorse e capitale umano dall’estero. In Germania risalta l’associazione Helmholtz che raggruppa 18 centri di ricerca indipendenti con un budget complessivo di 4,5 miliardi di euro e circa 39 mila dipendenti sempre in crescita (dati 2018).
I fondi Helmholtz
L’associazione ripartisce i fondi del ministero della ricerca tedesco ai suoi partner e ne garantisce la valutazione, come illustrato in un recente articolo di Nature. Circa due terzi del budget di Helmholtz è di natura pubblica e un terzo proviene da fonti private diretti a finanziare la ricerca in alcuni settori prioritari: energia, ambiente, salute, aereonautica, spazio e trasporti e altre tecnologie chiave.
Per l’Helmholtz, la capacità di allocare le risorse secondo criteri di merito, con valutazioni esterne periodiche con una visione strategica condivisa garantisce la qualità della spesa in ricerca con un ritorno tangibile in brevetti e in collaborazioni con il settore industriale.
L’integrazione con le infrastrutture della ricerca e la qualità dell’organizzazione è un fattore di attrattività per la comunità scientifica internazionale. Nel 2014, 7476 ricercatori stranieri lavoravano nei centri Helmholtz, oltre ai 300 del programma rifugiati che accoglie i ricercatori che hanno dovuti abbandonare il proprio paese.
Italia ancora lontana dalla Germania
In Italia, pur disponendo di infrastrutture di ricerca eccellenti, non esiste ancora un’istituzione simile all’Helmholtz. Seppure in scala minore sicuramente fa ben sperare il Gran Sasso Science Institute (GSSI), nato nel 2012 per volontà del governo Monti come centro di ricerca dell’INFN, collegato ai laboratori del Gran Sasso, dal 2016 università autonoma grazie all’esito positivo della valutazione da parte dell’ANVUR.
Nei settori della fisica, matematica, informatica e delle scienze sociali, la qualità scientifica del GSSI è di alto livello e può attrarre ricercatori dall’estero oltre a limitare proprio la ‘fuga dei cervelli’ ovvero i tanti ricercatori italiani costretti a guardare all’estero per proseguire la propria carriera.
L’Ocse sulla base di un indicatore bibliometrico, fornisce da diversi anni periodicamente una stima dei flussi migratori dei ricercatori approssimati dagli ‘autori scientifici’ di ogni articolo con una variazione del paese dell’istituzione di affiliazione.
Fuga dall'Italia, emorragia di talenti
L’Italia tra il 2011 e il 2016 è il paese europeo con i deflussi più elevati: 10964 ricercatori emigrati all’estero, di cui oltre il 90 percento dal 2008 e oltre il 58% dal 2011, ovvero da quando la scure dell’austerità si è accanita sull’università e gli di enti di ricerca limitando assunzioni, stanziamenti e bloccando i salari.
I dati Ocse mostrano come, tra il 2006 e il 2016, il bilancio dei flussi dei ricercatori dal nostro sistema con i singoli paesi sia sempre in rosso, non solo con potenze come gli USA, la Germania e il Regno Unito ma anche con paesi come la Spagna che in un tempo non lontano non erano mete ambite.
Solo nuovi investimenti e nuovi incentivi pubblici a favore dei ricercatori potranno fermarne la migrazione e fornire al nostro sistema economico un fattore di competitività indispensabile per lo sviluppo come avviene nel modello tedesco che dopo la crisi del 2008 ha investito molte risorse pubbliche sulla ricerca per ritornare a crescere e ad investire nei settori ad alta tecnologia.