Agli inizi degli anni Sessanta e all’indomani dell’innalzamento del muro che avrebbe diviso in due la Germania per trent’anni, l’allora leader sovietico Nikita Kruscev esternò un suo pensiero in una famosa e colorita espressione: “Berlino è come i testicoli dell’Occidente. Quando voglio far strillare l’Ovest, schiaccio...”.
Quella Berlino di allora sembra sia diventata la Chernobyl di questi tragici giorni, nell’attuale teatro bellico.
È di qualche ora fa la notizia dell’interruzione dell’alimentazione elettrica nel sito della centrale, presumibilmente a causa di un guasto o di una caduta di tensione forse non provocata intenzionalmente (non ne abbiamo certezza), bensì come indiretta conseguenza della difficile situazione generale in cui versa il paese. Tant’è che è stato chiesto un “cessate il fuoco” per consentire le necessarie riparazioni e il ripristino dell’alimentazione.
Ricordiamo che il sito di Chernobyl ospita quattro impianti della filiera RBMK. L’unità disastrata nel 1986 è la quarta. Le altre rimasero attive per qualche anno ma, dal 2000, nessun reattore è più operativo e successivamente si sarebbe dovuto dare inizio alla fase di decommissioning.
Ci domandiamo se, anche in questa nuova situazione che coinvolge ancora una volta il sito, ci sia stato (o se ci sia ancora, al momento in cui scrivo) il pericolo di una evoluzione analoga a quella del 1986 che produsse effetti da sviluppo transfrontaliero tali da investire alcune nazioni europee con l’arrivo di parte della nube emessa nell’incidente.
Chiariamo subito che in questo evento contingente non si sta parlando di reattori nucleari in senso stretto, bensì dei siti di stoccaggio del combustibile esausto, presumibilmente alloggiati già da una ventina di anni. Questi siti sono costituiti da grandi piscine all’interno delle quali si garantisce il raffreddamento del combustibile esaurito (che continua a essere caldo per via dei decadimenti radioattivi ma non al punto da destare eccessiva preoccupazione, dato il tempo trascorso) tramite opportuna circolazione di acqua.
La perdita di alimentazione dovrebbe essere stata innanzitutto compensata da motori ausiliari dedicati, intervenuti in automatico, ma in ogni caso occorre sottolineare che la capacità termica delle piscine garantirebbe comunque la rimozione del calore residuo anche a fronte di uno “station blackout”, di una interruzione di corrente elettrica, come sottolinea in un suo comunicato anche la IAEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
In questi casi, ad asportare l’eventuale surplus di calore ci penserebbe anche la fisica, con la circolazione naturale offerta dal fenomeno della convezione termica che noi tutti sperimentiamo con la pentola dell’acqua sul fuoco acceso.
Al di là dell’evento in sé e di quelli che si sono verificati in questo drammatico scenario, dobbiamo chiederci e analizzare a mente fredda se oggi sia giustificata la paura che qualcosa possa riprodurre l’incidente di trentacinque anni fa, anche in un teatro bellico che ospita quindi impianti nucleari o se invece sia presente in tutti noi una sorta di “sindrome Chernobyl”.
Cominciamo col dire subito che nessuno finora ha mai testato l’integrità strutturale di un reattore nucleare coinvolto in operazioni di guerra. In miei precedenti articoli spiegavo che la tipologia dei reattori esistenti, i cosiddetti VVER, molto simili ai reattori occidentali di tipo pressurizzato (PWR), presentano una ingegneria, una tecnologia e una filosofia della sicurezza completamente differenti dalla filiera RBMK.
In primis, l’assenza di tutta quella grafite che tanta parte ha avuto nello sviluppo dell’incendio del reattore sovietico con il rilascio dei prodotti radioattivi per effetto camino e poi l’assenza del cosiddetto “coefficiente di vuoto positivo”, la condizione pericolosa per cui, in caso di ebollizione dell’acqua per perdita di refrigerante, la reattività nucleare del sistema tenderebbe ad aumentare invece di essere ridotta. Oltretutto, il sito di Chernobyl è ormai del tutto passivo e non operativo. Francamente, la probabilità di un evento al grado di quello del 1986, in qualunque evenienza, è già cautelativo considerarla del tutto trascurabile. Al peggio, in caso di collasso delle strutture, potrà prodursi una nube di polvere radioattiva ma di portata decisamente locale.
Cosa accadrebbe se invece fosse portato un attacco a una delle centrali operative? Le strutture di queste centrali offrono garanzie di integrità in caso di incidenti – anche di grossa portata – indirizzati direttamente all’edificio in calcestruzzo di contenimento. Passare quindi dall’esterno per danneggiare seriamente il nocciolo (core) interno, difeso in profondità da vari livelli di sicurezza, sembrerebbe una soluzione abbastanza inefficace, in un’azione intenzionalmente offensiva.
E se l’azione fosse invece di sabotaggio attuato all’interno del corpo reattore? Quali sarebbero le conseguenze per esempio del danneggiamento del circuito primario di un reattore come quelli ucraini, in modo che quest’ultimo non sia più in grado di asportare il calore dalla zona attiva? Ovviamente, tutto dovrebbe dipendere dall’entità del danno e dalla possibilità di intervento successiva per mitigarlo. Ma gli impianti nucleari hanno sistemi compensativi per asportare il calore dal nocciolo, come ad esempio i circuiti ausiliari di raffreddamento di emergenza (ECCS, Emergency Core Cooling System), che inietterebbe il nocciolo di refrigerante in caso di gravi perdite nella rimozione del calore (incidenti di tipo LOCA, Loss Of Coolant Accident).
E se anche i sistemi di emergenza dovessero fallire, per qualsiasi causa?
La storia ci aiuta a capire. Un PWR americano (Three Mile Island), alla fine del mese di marzo del 1979 registrò un grave incidente con perdita di refrigerazione, primaria e ausiliaria, per un tempo sufficiente a provocare la fusione di una parte considerevole di combustibile nel vessel e la produzione di idrogeno a causa di una reazione chimica ad alta temperatura con il metallo presente. L’idrogeno raggiunse una concentrazione tale da innescare una miscela detonante che fece registrare una esplosione di non grande entità all’interno del vessel. Un’altra bolla di idrogeno, più grande e pericolosa che si raccolse nel duomo del reattore, nei giorni successivi fu invece assorbita. Ma tutto questo non produsse danni alla struttura e l’evento si risolse con una fuoriuscita di acqua debolmente radioattiva in un edificio ausiliario. Effetti positivi della difesa in profondità.
Ancora, Fukushima, marzo 2011. Tsunami devastante e station blackout per tre di quattro impianti nucleari BWR (non pressurizzati ma ad “acqua bollente”, però con le stesse funzioni di sicurezza dei PWR) a causa dell’allagamento dell’area che ospitava i motori diesel previsti per garantire l’alimentazione e consentire il raffreddamento sia dei reattori implicati che delle piscine di raffreddamento che ospitavano elementi di combustibile esausto.
Gli operatori lavorarono al buio cercando di raffreddare i reattori dall’esterno, prendendo l’acqua del mare. Anche qui, alla fine, si registrarono fusioni parziali del combustibile, con produzione di idrogeno che provocò esplosioni tali da distruggere parte del tetto, esterno comunque all’edificio di contenimento dove si era raccolto e considerato “sacrificabile” proprio per queste situazioni. L’effetto di questo altro incidente fu per giorni l’emissione di radiazione, per vapore e soprattutto per l’accumulo dell’acqua servita per raffreddare gli impianti. Ma l’integrità più interna fu comunque in gran parte garantita. E gli impianti coinvolti contemporaneamente erano ben tre... Come per Three Mile Island, non fu registrato alcun incendio.
Due incidenti diversi nella loro dinamica, con effetti tutto sommato limitati rispetto alla devastazione del reattore di Chernobyl, un reattore che non si sarebbe dovuto peraltro nemmeno disegnare su carta, visti i grossi problemi di sicurezza che esso presentava.
I VVER ucraini si discostano dalla filiera di reattori RBMK , ormai resi pressoché inoffensivi. E essi stessi sarebbero in grado di far fronte a situazioni incidentali anche serie. Ma siamo comunque in un teatro di guerra e il condizionale è d’obbligo, proprio perché, per eccesso di cautela, non abbiamo termini di confronto.
Preoccupiamoci però di una umanità che sta soffrendo e che non è giusto soffra di più per paure che al momento sono lontane.
Che sono lontane anche dall’Europa.