Un editoriale pubblicato di recente dalla rivista Nature auspica la creazione di un osservatorio mondiale sull’editing del genoma, tecnologia resa nota dai risultati degli approcci basati sulle nucleasi zinc-finger e sul sistema crispr-cas9. Secondo gli autori è necessario ampliare la conversazione su questo tema: in altre parole, includere le voci espresse da una pluralità di discipline del sapere, componenti sociali e aree del mondo.
La caratteristica innovativa della proposta dovrebbe riguardare principalmente l’impostazione di un dibattito improntato al massimo equilibrio tra le parti coinvolte. Il tema dell’equilibrio tra scienza e società (chi indirizza chi?) è da sempre fonte di controversia ogni volta che si invocano iniziative di questo tipo: l’articolo, per esempio, ricorda la inefficace separazione dei dibattiti, tra scienziati e tra bioeticisti, sulle ricadute della tecnologia del DNA ricombinante a metà degli anni settanta.
In più, oggi, molti vedono nelle richieste di maggiore condivisione delle scelte di indirizzo della ricerca anche un pericolo di interferenza da parte delle tendenze anti-scientifiche sempre più diffuse: è un rischio che non va sottovalutato, ma non è buon motivo per auspicare una scienza arroccata in una torre d’avorio. Per quanto la gestione dell’equilibrio tra scienza e società sia indubbiamente complessa, vigilare sulle applicazioni della conoscenza è necessario e penso che la comunità scientifica ne sia consapevole.
Pensiamo alla tragica esperienza della bomba atomica. I fisici che contribuirono al suo sviluppo, non avevano di certo in mente Hiroshima, ma quel momento mise il mondo della fisica, e della ricerca in generale, di fronte alla presa di coscienza delle conseguenze devastanti che il progresso scientifico può generare.
Ogni ricerca che porti innovazione può implicare un cattivo uso degli strumenti realizzati e nessuna disciplina può dimenticare che il valore della persona è superiore e precedente a tutto il resto. Per tornare all’ambito biomedico, principalmente toccato dal gene editing, così come si condivide l’affermazione che la persona non è la sua malattia, analogamente è importante ribadire che il valore della vita umana precede qualsiasi valutazione rispetto all’opportunità di un progetto scientifico.
È quindi auspicabile che la scienza continui a interrogarsi su questi temi e che mantenga alta l’attenzione sulle implicazioni di tecnologie di manipolazione che aprono scenari assolutamente inediti. Non saprei dire se un osservatorio mondiale possa essere utile a questo scopo - molto dipenderà dalla sua governance nella quale l’articolo di Nature non si addentra più di tanto.
A modello è citata l’esperienza del IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il forum scientifico nato sotto l’egida delle Nazioni Unite con l’obiettivo di mappare le conoscenze sui fenomeni ambientali, monitorare le politiche d’intervento sul clima nei diversi paesi e tracciare scenari e ipotesi di azione al livello globale. Conosciamo, purtroppo, anche i limiti di questa iniziativa nell’indirizzare politiche climatiche effettivamente condivise e applicate al livello globale.
Trovo interessante, tuttavia, l’auspicio che il dibattito sul gene editing si svolga in una dimensione globale perché avrebbe poco senso, e sarebbe forse anche controproducente, che fossero tenuti a margine della discussione paesi magari periferici rispetto al circuito tradizionale del dibattito scientifico ma che oggi stanno perseguendo in modo attivo lo sviluppo di questa tecnologia.
A conclusione, quindi, vorrei ridimensionare la visione catastrofista di una scienza cieca e scellerata. Credo che il progresso dell’umanità verso la condizione attuale che è indubbiamente di maggiore benessere rispetto alle epoche passate, sia testimonianza dell’opera di una comunità scientifica complessivamente capace di auto-regolarsi e indirizzare gli avanzamenti del sapere verso la produzione di risposte ai bisogni delle persone.