La rivoluzione dell’editing genetico e una domanda (forse) inutile
L'ingegneria genetica ha da sempre diviso l'opinione pubblica, i pro e i contro

La tecnologia rende ancora necessaria la filosofia. Ecco un esempio. A rinnovare la discussione sui limiti che l’uomo debba porre a se stesso nella (dis)avventura, sempre dietro l’angolo, di una riprogrammazione genetica à la carte è stato di recente il parere del NuffieldCouncil on Bioethics (Ncb), ente britannico non governativo, che si è espresso sul cosiddetto “editing genetico” di embrioni umani.
Editing genetico per la prevenzione
In un primo momento, spiegano gli esperti dell’autorevole comitato scientifico nel documento intitolato “Genome editing and human reproduction: social and ethicalissues”, l’obiettivo dell’editing sarà la “prevenzione dell’ereditarietà di una specifica malattia genetica”. In un secondo momento, aggiunge in un intervista al The Guardian il presidente del gruppo di lavoro Karen Yeung, responsabile del Centre for Technology, Ethics& Law in Society King’s College di Londra, “si potrebbe anche andare oltre”. “La tecnica dell’editing genetico non è di per sé immorale”, anzi presenta “il potenziale per diventare una strategia alternativa a disposizione dei genitori per raggiungere una gamma più ampia di obiettivi”.
I pareri contrati
Quali siano nel dettaglio questi obiettivi non è dato saperlo, ma il messaggio è chiaro: non c’è una valida ragione morale per precludere un futuro in cui l’uomo possa riscriversi il codice. Apriti cielo. Strali di genetisti, filosofi e bioeticisti si sono scagliati contro i possibilismi contenuti nel documento. Li sintetizza bene in un passaggio riportato dalla BBC David King, direttore dello “Human Genetics Alert”, che parla di una “vergogna assoluta”.
“Abbiamo avuto – dice – divieti internazionali sull’ingegneria genetica a sfondo eugenetico per 30 anni. Ma questo gruppo di scienziati pensa di saperne di più”. E poi, nel ricordare che i cittadini inglesi si sono già espressi contro il cibo geneticamente modificato, domanda retoricamente “Do you suppose theywant GM babies?”. “Pensate che vogliano bimbi geneticamente modificati?”. Ecco, io non sarei così sicuro della risposta.
L'uomo, un prodotto della natura
L’uomo ha perso per la seconda volta la sua innocenza quando ha scoperto di essere un prodotto della natura e non più un angelo caduto dal cielo. Se infatti sei un prodotto non puoi non finire con l’occuparti dei tuoi mezzi di produzione. Anche scegliere di non farlo è una scelta, forse la più complicata, e la storia del Novecento insieme a questi ultimi decenni così vorticosamente biotech lo testimoniano. Alle nostre spalle troneggiano le macerie lasciate dall’eugenetica nazista, dai programmi di sterilizzazione statunitensi che l’hanno ispirata e, ancora, dai progetti di “profilassi sociale” socialdemocratici dei civilissimi paesi scandinavi.
Programmi, è sempre utile sottolinearlo, per quanto tutti ripugnanti ciascuno con obiettivi e peculiarità proprie. L’ideologia razzista e millenarista di chi intendeva “ricreare l’umanità” (Adolf Hitler) è diversa dal razzismo classista di acclamati accademici a stelle e strisce come Charles Davenport, professore ad Harvard, George W. Hunter o William E. Castle, autori rispettivamente di testi (“A civicbiology” e“Genetics and Eugenics”)adottati in tutte le più importanti università americane fino agli anni ’40. Né l’eugenetica nazista è equiparabile alla sindrome da igiene sociale dei coniugi Myrdal (Gunnar e Alva, entrambi Premi Nobel), paladini del welfare state scandinavo. Così come è utile e doveroso sottolineare, contro tutti gli allarmisti di professione per cui ogni nuova possibilità di intervento sul Dna ci porterebbe dritti al Terzo Reich, che i progetti di ingegneria biopolitica che hanno infestato buona parte del “secolo breve” sono incommensurabili alle logiche e allo spirito dei programmi che ispirano la ricerca genetica contemporanea.
Eppure, proprio perché forti di questa consapevolezza, con la realtà piuttosto evidente per cui l’uomo tende a sottrarre se stesso dall’alea della natura bisogna fare i conti. Detto in altri termini: se è vero che l’uomo è un prodotto della natura, perché continuare a lasciar fare solo alla natura? Il tempo di digerire Darwin e l’interrogativo si insinua nel dibattito di ogni uomo di cultura europeo. E non lo abbandonerà più.
Uomo ente selezionato, selezionabile e selezionatore
Indipendentemente dalle intenzioni del grande naturalista, la selezione naturale si mostra infatti subito come un’ipotesi di lavoro. Nel momento in cui l’uomo si scopre un ente selezionato (dal caso e non da Dio), scopre anche di essere un ente selezionabile. E vorrà essere lui il selezionatore. Il fatto che Darwin non abbia mai affrontato né legittimato questo genere di conclusioni è solo un dettaglio per biografi.
Darwin spiega che l’uomo non è più un dato ma un prodotto, altri ne traggono le conseguenze. Il primo a farlo è suo cugino Francis Galton, fondatore dell’eugenetica. “Quel che la natura fa ciecamente, lentamente e rozzamente, l’uomo può farlo con preveggenza, praticità e con metodi raffinati”, scrive agli inizi del XX secolo con parole preterintenzionalmente profetiche. Nel manifesto sottoscritto dai partecipanti al settimo congresso internazionale di genetica tenuto a Edinburgo nel 1939 si diranno le stesse cose con altre parole: “Le caratteristiche genetiche di ciascuna generazione potrebbero acquisire una superiorità su quelle della precedente solo attraverso la selezione, di modo che coloro che possiedono un corredo genetico migliore si riproducano più degli altri, o per libera scelta o in conseguenza del loro comportamento”. L’orizzonte tracciato dal darwinismo e teorizzato da Galton rimane invariato: occorre migliorare la specie attraverso una selezione autodiretta.
L’invenzione della tecnica del Dna
Dopo la seconda guerra mondiale, sotto i colpi dell’ignominia nazista, le cose cambiano. A cominciare dai nomi. Nel 1950 il biologo inglese Lionel Penrose cambia il nome della rivista “Annals of Eugenics” in “Annals of Human Genetics”, e la sua cattedra allo University College di Londra, prima denominata GaltonProfessorship of Eugenics, diventa GaltonProfessorship of Human Genetics. Sempre nel 1950 nasce la American Society of Human Genetics, che pubblica nel 1954 il primo fascicolo dell’“American Journal of Human Genetics”.
Insieme ai nomi cambia in modo radicale la scienza di riferimento. Negli anni ’70 l’invenzione della tecnica del Dna ricombinante segna l’inizio dell’ingegneria genetica così come oggi la conosciamo, si inaugura la possibilità di intervenire sul profilo genetico degli individui. Il sogno di migliorare le caratteristiche genetiche non deve più di necessità riguardare intere popolazioni ma poggia sulla possibilità di una medicina personalizzata. Il miglioramento genetico è questione personale, al controllo sociale della riproduzione si avvicenda l’intervento diretto sul genoma degli individui.
Come ha sottolineato Habermas, dall’eugenetica di matrice statalista si passa a un’“eugenetica liberale”. L’editing genomico basato sulla cosiddetta tecnologia Crispr, protagonista in questi ultimi sei anni di una nuova rivoluzione nella manipolazione del codice della vita, è un esempio efficace di questo rovesciamento di prospettiva. Crispr promette di correggere un tratto specifico di Dna grazie a un paio di “forbici molecolari” estremamente selettive. Secondo “Nature” si tratta di una tecnologia economica, veloce e facile da usare; non ancora “ready to market” ma con la ragionevole promessa di esserlo presto. L’editing genomico accresce la speranza di contrastare un gran numero di malattie genetiche e far compiere un balzo in avanti alla medicina del XXI secolo.
Il rapporto tra genetica e medicina
La genetica rivoluziona la medicina ma la medicina non esaurisce le possibilità della genetica. Il parere del Council on Bioethics lo lascia intendere, e meglio ancora fa “The Economist”, la più influente rivista economica al mondo, che a proposito della tecnica Crispr/Cas9 parla esplicitamente di “riscrivere l’uomo” (“Editing humanity”). Insieme a nuove sfide terapeutiche nascono propositi di enhancement. Ed è inevitabile. Velocità e complessità della realtà che ci circonda rischia di far diventare il discrimine tra genetica terapeutica e genetica migliorativa solo un caso di scuola, un utile paragrafo introduttivo nei manuali o nei pareri delle consulte di bioetica. Ma niente di più. È il potenziamento dell’uomo da parte dell’uomo la posta in gioco di ogni discorso che miri alla comprensione dell’essenza delle tecnologie genetiche. La tecnologia, appunto, rende ancora necessaria la filosofia.

Va a Peter Sloterdijk il merito di aver reintrodotto nel dibattito filosofico di alto livello il discorso sulle antropotecniche. Ecclettico come pochi, prolifico, erudito e sapientemente pop, ha sdoganato con saggi temerari l’ipotesi dell’autoproducibilità dell’uomo. Dopo aver sollevato polemiche come non se ne vedevano da decenni con una conferenza tenuta a Parigi quasi vent’anni fa dal titolo “Regole per il parco umano”, il pensatore tedesco ha sottratto il dibattito sull’eugenetica alle ipocrisie degli addetti ai lavori, dove ogni discorso sull’ingegneria genetica si conclude o con un richiamo al nazismo ( il pericolo del “pendio scivoloso”), o con un avvertimento sugli attuali deficit della scienza e sulle inadeguatezze tecnologiche, o con un monito sul biologismo di chi vorrebbe ricondurre qualità cognitive a basi genetiche. O, molto spesso, con tutte e tre le cose.
In "Devi cambiare la tua vita", significativamente sottotitolato “Sull’antropotecnica”, Sloterdijk spiega come la strada della “produzione del produttore” sia stata imboccata ben prima del XX secolo. Per esempio da intellettuali rinascimentali come Lorenzo Ghiberti, Leon Battista Alberti o Pico della Mirandola, pensatori che cominciano professare fede nell’Uomo e nelle sue magnifiche possibilità. Nel “Discorso sulla dignità dell’Uomo” Pico scrive il manifesto umanista per eccellenza. Non parla di editing genetico, questo no, ma scolpisce nell’immaginario occidentale la questione della plasticità della forma umana. E non no è poco. “Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno – scrive – né mortale né immortale, affinché tu possa tranquillamente darti la forma che vuoi, come libero e sovrano scultore e artefice di te stesso. Potrai degenerare negli esseri inferiori, i bruti; potrai rigenerarti, se lo vorrai, nelle cose superiori, divine”. L’uomo non ha natura e perciò può diventare qualsiasi cosa. La preoccupazione di un’ortopedia dell’umano nasce con la scoperta rinascimentale della sua infinita plasticità.
A esprimere meglio di altri i nuovi scenari innescati dalla volontà di riformare l’humanitas dell’uomo è un Padre della Chiesa: Giovanni Amos Comenio (1592-1670), ispiratore della pedagogia moderna e autore di un progetto didattico dal nome che è tutto un programma: Typographeumvivum, “Tipografia vivente”. Lo scopo? Stampare uomini “privi di refusi”. Nel 1639 Comenio lancia il suo ultimatum: “Tempus est”, il tempo è arrivato. È cioè arrivato il tempo di fabbricare esemplari della specie che abbiano le carte in regola per diventare “uomini in forma”. La tecnica per raggiungere lo scopo la illustra l’anno successivo nella sua monumentale Didactica Magna (1640), dove elabora le istruzioni per diventare a immagine e somiglianza di Dio. Sì, perché all’epoca essere in forma significava riuscire a somigliare a Dio.

Facendo appello a una interdisciplinarità riconosciuta anche dai suoi avversari, dalla teologia all’antropologia, dalla biologia evoluzionistica alle neuroscienze, Sloterdijk tesse un’analogia tra l’impresa pedagogica e quella biotecnologica e spiega come si passi progressivamente dall’insofferenza verso l’uomo come prodotto della casualità morale all’insofferenza verso l’uomo come prodotto della casualità genetica. Tra Comenio e l’editing genomico c’è tanta roba ma più di tutti c’è Darwin che, per così dire, rivisita in chiave naturalistica l’umanesimo di Pico della Mirandola e fa presente alla coscienza di noialtri come l’uomo non sia altro che una “fermata temporanea” nella fucina evoluzionistica dominata da caso e necessità. “La teoria evoluzionistica – osserva Hans Jonas in Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica– considera il corpo […] come risultato e fermata temporanea di un continuo dinamismo”. Ogni corpo vivente è sì un punto di arrivo, ma è anche un punto di partenza.
Non mi piace citare i transumanisti, tra generazioni cyborg e processi di minduploading i fantascenari spesso prefigurati nei loro lavori servono solo a creare confusione e qualche inchiesta giornalistica a effetto. Nick Bostrom, fondatore e direttore del Future of HumanityInstitute dell'Università di Oxford, tuttavia coglie nel segno quando in un importante articolo sulla storia del pensiero transumanista pubblicato sul “Journal of evolution and technology” scrive che “dopo pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin è diventato sempre più plausibile guardare all’attuale versione dell’umanità non come punto finale dell’evoluzione ma piuttosto come una fase iniziale”. La questione non è più se desiderare o meno bambini geneticamente modificati, ma che direzione Chi ne decide la direzione, ammesso e non concesso che debba essercene una?
Il 79% favorevole all’utilizzo dell’editing genetico per prevenire o curare gravi malattie
Un sondaggio pubblicato a luglio dal Pew Research Center ha rilevato che mentre gran parte degli americani (il 79%) è favorevole all’utilizzo dell’editing genetico per prevenire o curare gravi malattie, solo poco più del 20% sarebbe favorevole all’utilizzo di questa tecnologia per rendere i bambini più intelligenti o comunque per usi non strettamente medici (qui il report completo). Nello stesso rapporto è tuttavia citato un altro sondaggio secondo cui più della metà degli americani crede che saremo in grado di eliminare quasi tutti i difetti alla nascita con l'aiuto dell'editing genetico entro 50 anni.
A quel punto, si chiede Arthur Caplan, professore di Bioetica alla New York University Langone Medical Center e tra le voci più influenti della bioetica internazionale, dovremo affrontare un dibattito globale su cosa significhi “essere umani”. “A quel punto, il dibattito non sarà più incentrato sulla differenza tra terapia e potenziamento del genoma umano, perché il miglioramento sarà un dato di fatto”. I “designer babies” rappresentano una nuova tappa della lotta ingaggiata dall’umanesimo sotto le insegne della pedagogia e dello sperimentalismo ascetico in nome di un’umanità senza più refusi? Non lo so. So che l’interrogativo del dr. David King “Do you suppose theywant GM babies?” rimane sì retorico, ma in un senso che temo non gli piaccia più poi così tanto.
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