“Barbari”, “insolenti bestie”, “mostri”, “tiranni”, “giganti”, come definire i terremoti? E le inondazioni? Dei “diluvi” di Roma nel ‘500 abbiamo diversi racconti, ciascuno con un suo stile, sintassi, struttura narrativa.
Nella “Relazione della spaventevole inondatione del Tevere del 1598” prevale per esempio il taglio impersonale, nel “Trattato dell’inondazione del Tevere” (testo del 1599) di Giacomo Castiglione c’è del pathos, della retorica emotiva, soprattutto in corrispondenza della comparsa del cardinale committente e dedicatario del testo, mentre nel “Diluvio di Roma che fu a. VII d’ottobre 1530”, pubblicato nello stesso anno a Bologna, affiora l’elemento soggettivo e il fatto tremendo dell’inondazione viene addomesticato ai canoni delle narrazioni popolari e di consumo.
Riuscite a immaginare Napoli senza il Vesuvio?
Se è vero quello che diceva Wittgenstein, che il linguaggio segna i confini del nostro mondo, allora sintassi, codici e parole sono il nostro mondo e non serve grande intuito per capire quanto possano essere importanti, per gli uomini, le parole da usare per descrivere ciò che accade quando il mondo minaccia di svanire.
Gli uomini raccontano i disastri non solo perché ne sono sopravvissuti, ma soprattutto per continuare a sopravviverne.
A Napoli lo sanno bene, riuscite per esempio a immaginare una rappresentazione di Napoli senza il Vesuvio? Ecco, questo è uno degli effetti della celebre eruzione del 1631 e della enorme quantità di testi e immagini che essa produsse.
“Come dicono gli studiosi di disastri: un disastro naturale non è naturale”, spiega Chiara De Caprio, docente di Storia della Lingua Italiana alla Federico II di Napoli e curatrice, insieme ai colleghi Domenico Cecere, Lorenza Gianfrancesco e Pasquale Palmieri di “Disaster Narratives in Early Modern Naples. Politics, Communication and Culture” di recente uscito per i tipi di Viella (traduzione di Enrica Maria Ferrara).
Terremoti, le cronache del ‘600 per capire il presente
Il libro (con contributi Giancarlo Alfano, Domenico Cecere, Silvana D’Alessio, Chiara De Caprio, Rita Fresu, Lorenza Gianfrancesco, Giovanni Gugg, Francesco Montuori, Pasquale Palmieri, Francesco Senatore e Pierluigi Terenzi) è il risultato di ricerche guidate dalla De Caprio dal 2013 al 2016 sui “testi del disastro” prodotti nell’Italia Meridionale tra tardo medioevo e prima età moderna.
Linguisti, storici, antropologi, ma anche esperti di scienze dure come climatologi, sono stati chiamati a indagare le modalità di narrazione di eventi catastrofici. Ne sono venute fuori le “logiche terapeutiche” costruite nel Regno di Napoli per addomesticare eventi terribili e rovinosi. Ma non solo, perché il testo parla del passato per dire del presente.
“La narrazione di un disastro – spiega Chiara De Caprio – è un tema che ha un forte impatto sulla società attuale, anch’essa chiamata a confrontarsi coi disastri e col rischio. Direi anche una società affetta da processi di rimozione della complessa relazione fra uomo-ambiente”. Ci si ricorda della natura quando i disastri accadono e non si sfruttano i “periodi di pace”, cioè le fasi che precedono i disastri, durante le quali si potrebbero elaborare risposte al disastro più meditate.
Nel saggio di Francesco Montuori “Voices of the ‘totale eccidio’: On the Lexicon of Earthquakes in the Kingdom (1456-1784)” c’è un passaggio che sembra tratto dalle cronache dei quotidiani di oggi, laddove un autore, Carlo Celano, a proposito dell’opposizione inglese tra “sysmic hazard” e “sysmic risk” sottolineava la necessità di individuare le responsabilità non già del danno del terremoto, ma del “maggior danno” motivato da scelte architettoniche e urbanistiche imprevidenti.
“In questa prospettiva – continua la ricercatrice – il nostro progetto, anche con la sua prospettiva storica e linguistica, incentrato quindi sul passato e sulle narrazioni, intende essere strumento attraverso il quale generare e potenziare la consapevolezza del carattere culturale dei disastri”.
Il disastro è la forza della natura ma è anche il collasso delle protezioni culturali cui spetta il compito di scongiurare o mitigare le minacce cui sono esposte le comunità.
Il “potenziale estetico” delle catastrofi
Tra ‘500 e ‘600 si assiste a una esplosione testuale sui disastri con un obiettivo preciso: giustificare l’intervento delle autorità.
Norme e disposizioni emergenziali, petizioni e suppliche all’autorità, pamphlets e testi narrativo-argomentativi mirano a costruire “una storia di successo” intorno alla linea d’intervento scelta dal potere religioso o politico.
La narrazione del disastro, spiegano gli autori, diventa un “operatore di narratività” per cui il racconto del disastro presuppone l’espressione di un “punto di vista” in conflitto con altre prospettive concorrenti.
“Both factual and fictional”, scrive la De Caprio per indicare l’ambiguità delle narrazioni sempre soggette a una sorta di “potenziale estetico delle catastrofi naturali”. Due aspetti solo apparentemente contraddittori, poiché creano insieme distanza critica e dunque credibilità nella sarabanda confusa delle notizie che circolavano in margine all’evento; e stupore, e meraviglia, e prossimità empatica al lettore.
Testi del disastro, un Erc da 1,5 milioni per un database intelligente
Dal progetto condotto dalla De Caprio non è nato solo questo libro ma un altro progetto ancora più grande.
Uno dei collaboratori del primo gruppo di ricerca e curatore del volume, Domenico Cecere, giovane storico del Dipartimento di Studi Umanistici della Federico II, ha infatti vinto il più ambito finanziamento europeo per ricercatori: un Erc Starting Grants da 1 milione e 481mila euro.
Specialista dell’Età Moderna e del Mezzogiorno d’Italia, Cecere guiderà il progetto “Discompose” (Disasters, Communication and Politics in Southwestern Europe. The Making of Emergency Response Policies in the Early Modern Age).
Il progetto prevede la raccolta sistematica delle “scritture del disastro”: migliaia di testi e immagini sparsi tra biblioteche e archivi di mezza Europa saranno digitalizzati, trascritti e raccolti in un database.
In questo modo sarà finalmente possibile combinare ricerche di distant reading (basate su analisi di grandi quantità di dati) e close reading (analisi ravvicinata e approfondita di un singolo testo e del suo contesto di produzione) e coniugare le capacità analitiche dei filologi con il trattamento informatico dei testi.
“In questo modo – precisa Cecere – sarà più facile cogliere trasformazioni e specificità in scritti di solito standardizzati e ispirati modelli antichi”.
In questo senso “Discompose” può offrire un contributo importante allo studio dei disastri contemporanei mettendo in luce, per esempio, la lunga vita di determinati schemi interpretativi che condizionano i modi in cui gli eventi eccezionali vengono vissuti e comunicati e affrontati. Discompose terminerà nel gennaio 2023. Cinque anni per provare a dare risposte a interrogativi non da poco.