La notizia dell'isolamento nel suolo delle isole Svalbard, all'interno del Circolo Polare Artico, di geni per la resistenza multipla ad antibiotici ha ulteriormente evidenziato come quello della diminuita sensibilità dei batteri patogeni agli antibiotici oggi utilizzati stia diventando un problema sempre più urgente e drammatico.
Nello studio pubblicato sulla rivista Environmental International, i ricercatori hanno condotto un'analisi metagenomica (cioè isolando e sequenziando direttamente il DNA, non i batteri stessi) da campioni di suolo prelevati nella regione del Kongsfjorden delle isole Svalbard. La località era stata selezionata per la bassa densità di popolazione e l'assenza di turismo di massa e di impianti industriali o coltivazioni agricole.
L'analisi ha identificato 131 geni responsabili di resistenza a nove diverse classi di antibiotici. La maggior parte, però, erano costituiti da particolari sistemi di "pompe" presenti in molti batteri del suolo per eliminare dalla cellula composti tossici e quindi non specifici per antibiotici (anche se in grado di dare resistenza). Insomma, un dato tutto sommato atteso. In totale, circa il 30% dei geni di resistenza isolati poteva essere ascritto a ceppi di batteri del suolo autoctoni.
Quello che ha sorpreso, invece, i ricercatori, è stato l'isolamento di numerosi geni di provenienza "esterna", cioè introdotti nell'area da altre zone. Molti di questi geni conferivano resistenza ad antibiotici di importanza critica per la clinica, come amminoglicosidi, macrolidi e cefalosporine. Ma certamente la sorpresa maggiore è stata l'identificazione del gene bla NDM-1 in grado di conferire resistenza ai carbapenemi, antibiotici ad ampio spettro che spesso costituiscono se non l'unica, certo una delle poche opzioni per il trattamento di infezioni batteriche gravi come quelle da Klebsiella, Acinetobacter e Pseudomonas, spesso resistenti ad altri antibiotici.
Il gene bla NDM-1 era stato isolato in India a partire dal 2007-2008, anche in acque superficiali contaminate probabilmente da liquami. Il fatto di averlo ritrovato in un'area così remota e distante da quella di primo isolamento e soprattutto in campioni che erano stati raccolti nel 2013, quindi pochi anni dopo la sua identificazione in India, pone l'accento sulla diffusione globale delle resistenze agli antibiotici. I batteri che hanno portato questo gene nell'Artico si pensa siano arrivati con gli uccelli migratori e dispersi con le loro deiezioni, ma non si esclude una possibile contaminazione di origine umana.
È importante capirci: la preoccupazione non è che proprio quei batteri resistenti ai carbapenemi arrivino dalle Svalbard a noi. L'isolamento era confinato ad una ristretta area e verosimilmente non costituisce nessun pericolo per quelle zone. L'allarme deriva dal fatto che questo ritrovamento implica che i geni per la resistenza agli antibiotici, una volta selezionati a seguito dell'utilizzo massiccio da parte dell'uomo, si diffondono rapidamente in tutto il globo, anche con meccanismi che noi ancora non comprendiamo fino in fondo (e quindi sicuramente blaNMD-1 ce lo troveremo a casa nostra, se non è già arrivato).
Ad esempio, un'analisi delle comunità microbiche che si sono adattate a colonizzare gli accumuli di materie plastiche inquinanti presenti nelle acque marine, ha dimostrato che questi batteri sono un vero e proprio serbatoio di geni per la resistenza agli antibiotici, indicando che l'effetto dell'attività dell'uomo sull'ambiente può avere (spiacevoli) risvolti inaspettati. La sfida che necessariamente dobbiamo vincere nel più breve tempo possibile è quella di ideare nuove molecole contro cui i batteri non siano resistenti e, nello stesso tempo, ripensare le nostre strategie di utilizzo degli antibiotici e limitare il loro rilascio massiccio nell'ambiente. Altrimenti i batteri vinceranno.