Chiunque sia mai entrato in contatto con una persona o una famiglia toccata dalla malattia di Huntington non può che rallegrarsi per i più recenti progressi della ricerca su questa patologia. Il 6 maggio sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine i risultati dello studio clinico di cosiddetta fase I-II che ha verificato la sicurezza e l’efficacia del trattamento con oligonucleotidi per silenziare il gene responsabile della malattia di Huntington e quindi determinare una minore produzione nel cervello dei pazienti della proteina responsabile dello sviluppo della malattia.
Sarà ora necessario uno studio di fase III, che coinvolgerà un numero molto più elevato di pazienti, finalizzato a verificare se questa minore espressione della proteina davvero comporti anche un miglioramento dei sintomi e un rallentamento della malattia. Vi sono già indicazioni molto incoraggianti in questo senso dalle prime analisi, ma, si sa, una ricerca di valore non prende scorciatoie e deve affidarsi al completamento di un percorso che è garanzia di un risultato certo e tutela per i pazienti.
Proprio qualche giorno fa, sulle pagine de La Stampa, le due ricercatrici italiane maggiormente impegnate su questo fronte, Elena Cattaneo e Chiara Zuccato, hanno ripercorso il cammino della ricerca verso la cura della malattia di Huntington, dalle prime descrizioni cliniche all’identificazione del gene avvenuta ventisei anni fa, fino al fiorire degli approcci terapeutici attualmente in corso di sperimentazione.
L’occasione per commentare questa importante notizia per la comunità delle famiglie toccate dall’Huntington è coincisa, nel nostro paese, con l’avvio degli Huntington Days, l’annuale iniziativa di sensibilizzazione e divulgazione, sulla malattia e sulla ricerca attiva in questo ambito, nata dalla collaborazione tra pazienti e comunità scientifica.
Ci sono molte novità di cui parlare quest’anno e non soltanto in relazione alla malattia di Huntington. E trovo che il mosaico che si sta componendo intorno alla ricerca sul gene silencing - cioè la possibilità di silenziare un gene e inibirne così gli effetti dannosi- faccia emergere una serie di spunti di riflessione sulle dinamiche attuali della ricerca.
Una prima considerazione riguarda la complessità della fase di passaggio dal laboratorio al paziente. La prova di concetto dell’efficacia del silenziamento genico in laboratorio è del 2000 ma è stato grazie allo sviluppo, negli anni successivi, della piattaforma tecnologica basata sugli oligonucleotidi che si è arrivati a poter trasformare questa cosa in un farmaco. La ricerca per arrivare ad attivare uno studio clinico con oligonucleotidi su pazienti con Huntington ha beneficiato delle conoscenze acquisite tramite altri studi e su altre malattie, tra cui, per esempio, la ricerca preclinica e clinica per la messa a punto di un’altra terapia, basata anch’essa sulla produzione di oligonucleotidi per uso clinico, per il trattamento dell’atrofia muscolare spinale.
Il risultato è che oggi almeno otto aziende stanno studiando diverse strategie terapeutiche per l’Huntington basate su questa tecnologia. Anche questa volta l’effetto valanga delle conoscenze scientifiche generate da una prima scoperta sta imprimendo un’accelerazione all’applicazione del silenziamento genico anche ad altre malattie neurodegenerative come Parkinson, Alzheimer e le forme genetiche della Sla.
Potremmo dire che la ricerca non è mai egoista; per quanto rara sia una patologia, gli avanzamenti conquistati per la sua cura riverberano su molte altre. Tutto questo sta già avendo ricadute importanti sulla pratica medica, anche sul fronte diagnostico.
Infatti, il percorso regolatorio di preparazione allo studio clinico di fase III ha stimolato la ricerca per la messa a punto di diversi strumenti innovativi -dalla diagnostica d’immagine ai marcatori molecolari- che avranno un impatto sulla diagnostica e la gestione dell’Huntington e, verosimilmente, di molte altre malattie neurodegenerative. Niente di tutto questo sarebbe probabilmente successo se non ci fosse stato lo stimolo delle associazioni dei pazienti che, a partire dal loro urgente bisogno, hanno costruito alleanze con gli scienziati.
Basti pensare che il principale metodo attualmente in uso per verificare la progressione della malattia di Huntington, e il suo impatto sulla qualità della vita dei pazienti, è stato sviluppato nel 1996 dal Huntington Study Group, un’alleanza internazionale nata dalla collaborazione tra ricerca accademica e pazienti a cui oggi partecipano anche diversi partner profit. Ma quel primo studio per la messa a punto della Unified Huntington’s Disease Rating Scale fu realizzato grazie ai finanziamenti dell’università di Rochester e di alcune organizzazioni nonprofit di Stati Uniti e Canada.
Ciò che si sta muovendo adesso intorno alla malattia di Huntington, che fino a pochi anni fa era considerata praticamente senza speranza, è l’ennesima conferma delle potenzialità della ricerca e del grandissimo valore di coloro che portano avanti la sua fiaccola, con rigore e lungimiranza, quando il traguardo non è nemmeno all’orizzonte.