Vorrei ringraziare pubblicamente il presidente del Consiglio che con tutto quello che sta capitando al nostro paese, fra rivolte di periferia anti rom, navi di poveracci bloccate, fiere librarie che diventano avamposti di resistenza partigiana, ha trovato il tempo questa mattina di aprire un piccolo e interessante convegno dedicato all’innovazione alla terza università di Roma.
Qui ha detto solennemente “che l’Italia non può restare indietro”. Belle parole. Nelle stesse ore ad Amsterdam nel corso di un maxi evento che attrae i migliori innovatori del mondo, è stata pubblicata la nuova edizione del rapporto globale sugli ecosistemi dove possono crescere le startup. E visto che il presidente del Consiglio stamattina ha detto di reputare di “fondamentale importanza capire e analizzare i cambiamenti in atto nel digitale”, l’ho letto per lui.
Le startup non sono più una nicchia ma un movimento culturale prima ancora che economico, che non ha confini. Tra il 1 gennaio 2016 e il 30 giugno 2018 la startup economy ha creato valore pari a 2.8 triliardi di dollari, equivalente al prodotto interno lordo del Regno Unito. Senza contare le aziende tecnologiche già consolidate come Apple, Google, Microsoft, Amazon e Facebook, che occupano i primi cinque posti delle aziende più grandi degli Stati Uniti. Quando parliamo di startup e innovazione parliamo insomma del motore principale della crescita economica. A questo proposito qualche giorno fa la Commissione europea ha twittato le previsioni di crescita per i vari paesi. Un tweet dove accanto alla bandiera di ogni paese c’era un numero: in testa Malta con il 5,5, poi la Polonia con il 4,2, poi otto paesi attorno al 3 per cento, sette paesi attorno al 2, 10 paesi attorno all’1, la Germania a 0,5. E poi l’Italia a quota 0,1.
Allora sono tornato a leggere il Rapporto Globale sulle città dove fioriscono le startup nel mondo, alla ricerca di Milano, Torino o Roma. Vi leggo la classifica: Silicon Valley, New York, Londra, Pechino, Boston, Tel Aviv, Los Angeles, Shanghai, Parigi, Berlino, Stoccolma, Seattle, Toronto, Singapore, Amsterdam, Austin, Chicago, Bangalore, Washington, San Diego, Denver, Ginevra, Sydney, Vancouver, Hong Kong, Atlanta, Barcellona, Dublino, Miami e Monaco. Italia, non pervenuta.
Allora ho cercato nella classifica delle 10 città emergenti. Quelle che stanno rimontando. Eccola: Helsinki, Hangzhou, Giacarta, Lagos, Melbourne, Montreal, Mosca, Mumbai, San Paolo, Seoul, Shenzen, Tokyo. Allora mi sono detto che forse però eccelliamo sicuramente in qualche settore. Nelle scienze della vita per esempio: ma ho scoperto Gerusalemme e la Danimarca occidentale. Nell’intelligenza artificiale ho avuto la conferma che Pechino e Tel Aviv tallonano la Silicon Valley. Per la blockchain brilla il secondo posto di Londra. Per la robotica si segnala la cinese Shenzen. Per il cibo e l’agricoltura, che pure sarebbero casa nostra, gli hub da seguire sono Medio Oriente e Irlanda. Per la cybersecurity l’Estonia naturalmente. Per l’ambiente Stoccolma da dove è partita la rivolta di Greta Thunberg. Per il fintech il Bahrain e San Paolo del Brasile. Per l’istruzione, Bangalore e Shanghai. Non c’era la voce “eventi sull’innovazione” purtroppo: in quella sono sicuro che non ci batte nessuno.
E ho pensato che forse bisogna avvisare il presidente del Consiglio. Avvisarlo che dire che “l’innovazione è importante” può fare prendere qualche facile applauso, ci può rincuorare lì per lì, ci fa sentire per un attimo meno soli, ma forse non basta più.