Parliamo male, è vero, ma non è colpa di Internet
Il fondatore del Censis sostiene che c'è stato un imbagascimento della lingua italiana. Ma i social sono la manifestzione non la causa. Che è: abbiamo smesso di innovare e quindi inventare parole nuove

Qualche giorno fa Giuseppe De Rita mi ha invitato al Censis. C’era una ricorrenza interna alla quale teneva in modo particolare (l’undicesimo anniversario della morte di uno dei fondatori del Censis, Gino Martinoli); e per l’occasione aveva scritto un testo che voleva discutere con alcuni amici. Io di De Rita non sono un amico, ma piuttosto un ammiratore. Leggere le sue analisi da tempo mi aiuta a capire come cambia la società italiana. In questo caso poi il titolo del pamphlet era stimolante assai: “L’imbagascimento del lessico collettivo”, dove il termine “imbagascimento” è una volgarità ricercata e persino letteraria (è una citazione di uno dei grandi scrittori del Novecento, Carlo Emilio Gadda). Insomma, provo a sintetizzare, la tesi di De Rita è che la lingua italiana si stia “sputtanando”, perdonate il termine, e che le colpe, secondo un pensiero dominante, siano in buona parte della rete e in particolare dei social network. Che in rete si usi un italiano orrendo è un fatto, ma che le colpe siano della rete mi lascia perplesso.
Per farla breve il 20 marzo sono andato al Censis. E il caso ha voluto che la sera prima fossi stato con mia figlia alla tappa romana del concerto di J-Ax e Fedez. Gran concerto, grande successo dal quale ero tornato a casa con due canzoni nella testa: “Facciamo musica del cazzo”, l’apertura; e “Il mondo è pieno di stronzi”, il finale. Ora io non sono un moralista o un bacchettone, e al concerto mi sono pure piuttosto divertito. Ma il giorno dopo, al Censis, sentendo De RIta argomentare sulle possibili cause dell’imbagascimento, quelle due canzoni mi sono tornate in mente. E le ho confrontate con due brani di quando io ero adolescente, come mia figlia adesso: “Sono solo canzonette” di Edoardo Bennato; e “In questo mondo di ladri” di Antonello Venditti. Il concetto è più o meno lo stesso, ma l’imbagascimento di cui parla De Rita è evidente anche solo nel passaggio generazionale di questi titoli.
Ma non sono le parolacce la causa dell’imbagascimento, semmai ne costituiscono uno degli effetti. Di solito le parolacce sono lì a testimoniare una rottura, una frattura, provocata da un sentimento giustificato ma pericoloso, il risentimento verso una casta, accusata, fra le altre cose, di parlare una lingua oscura, barocca, formale. Siamo sicuri di non avere nulla da rimproverarci su questo? Il linguaggio della politica e del giornalismo vi sembra sempre chiaro, diretto e sincero?
I social network da questo punto di vista svolgono soltanto la funzione di amplificatore: del resto il greco antico, la lingua geniale così ben raccontata da Andrea Marcolongo in un best seller, non è scomparso perché fosse difficile, ma perché era finita la Grecia di Pericle. La lingua insomma ci racconta la società e non il contrario. Una delle riprove più evidenti la si ha nel caso dell’abuso di inglesismi (io qualche riga fa ho usato best seller per indicare “libro più venduto”). Ce ne sono un’ infinità, alcuni davvero orrendi, soprattutto nel mondo del business (inglesismo), dei manager (bis), e del digitale (tris). Da che dipende? Dal fatto che non siamo più leader bensì follower (sto esagerando lo so): voglio dire che abbiamo smesso di innovare, di inventare, di stupire il mondo.
Non è sempre stato così: se andate su Wikipedia trovate, in inglese, una voce curiosa, la lista delle parole italiane usate in inglese. E’ una lista lunghissima: naturalmente c’è il cibo in tutte le sue declinazioni a partire dalla pizza; c’è la musica lirica a partire dal bravo!; c’è l’architettura classica prima che diventasse design; e infine c’è il cinema italiano fino a Federico Fellini (i “paparazzi” e la “dolce vita”). Questo per dire che anche gli altri hanno preso parole italiane ma lo hanno fatto quando siamo stati noi a indicare una via al mondo. Ora siamo nel mezzo della terza rivoluzione industriale: e in Italia viviamo una lunga transizione digitale, anzi, sarebbe più giusto dire che la subiamo, malvolentieri, senza capirla fino in fondo. E nel linguaggio alcuni scimmiottano la Silicon Valley, altri si rifugiano nel turpiloquio. Per superare l’imbagascimento dovremmo quindi risolvere le cause del declino, ricomporre la frattura sociale, tornare a costruire un futuro per tutti. E quel giorno avremo una lingua nuova.