Giornalismo, 10 cose che ho imparato insegnando alla Holden

Dal confronto di quattro anni con i giovani storyteller della scuola di Alessandro Baricco sono emerse alcune indicazioni per fare giornalismo al tempo di Internet

Giornalismo, 10 cose che ho imparato insegnando alla Holden

Ho fatto la mia ultima lezione alla Scuola Holden. Dopo 4 anni lascio la “cattedra” in questa scuola bellissima che Alessandro Baricco ha creato a Torino più di venti anni fa in un appartamento  vicino alla stazione ferroviaria, e che da 4 anni è in una nuova sede, a Borgo Dora, in una ex fabbrica di armi che il gusto di Renzo Piano e Dante Ferretti hanno trasformato in una fabbrica dove si formano giovani narratori di storie. Ho avuto la fortuna di poter seguire due classi per due anni ciascuna. E come spesso accade, avrei dovuto insegnare loro qualcosa ma credo che siano di più le cose che ho imparato io. Confrontarti con dei ragazzi che vogliono fare i giornalisti, o comunque gli storyteller, ti costringe a studiare, a riflettere su quello che fai ogni giorno. Per provare a dare loro qualche consiglio utile. Troppo grande la responsabilità che il talento che hai davanti non vada sprecato.

Ho dato tutto, ma non era abbastanza. E dove non arrivavo io ho chiesto una mano a degli amici e colleghi, perché arricchissero il corso con la loro esperienza e il loro sapere. Li ringrazio oggi sperando di non dimenticare nessuno: Carola Frediani, Guido Romeo, Pierluca Santoro, Pino Bruno, Alice Lizza, Antonio Amendola, Alice Tomassini, Rosy Battaglia, Giovanni Zagni, Oscar Badoino, Arcangelo Rociola, Steve Clayton, Davide Avino, Enrico Franceschini, Paolo Ciuccarelli, Enrico Giovannini, Francesco Costa, Massimo Banzi, Flavio Stroppini. E poi Luca Sofri, Luca Dini, Maurizio Molinari, Anna Masera, Giuseppe Smorto e Pierpaolo Cervi che ci hanno ospitato al Post, a Vanity Fair, a Repubblica e alla Stampa.  E Alessandro Frau, che è passato da studente ad assistente di cattedra diventamdo nel frattempo un giornalista.

Ma il vero ringraziamento va a loro. Agli studenti. In particolare vorrei citare quelli che stanno concludendo questo biennio, perché si tratta di una delle più straordinarie combinazioni di talenti con cui ho avuto la fortuna di collaborare. Non sono frasi fatte. Potrete vederli all’opera a Torino all’inizio di giugno, quando presenteranno al pubblico il loro “capolavoro”, il progetto di storytelling e giornalismo al quale ciascuno di loro ha scelto di dedicarsi in questi ultimi mesi (credetemi, almeno quattro o cinque vi lasceranno a bocca aperta). Intanto ve li presento: Remo Gilli, Carolina Orlandi, Luca Magrone, Eugenio Damasio, Marco Bonadonna, Simone Cartini, Esperance Ripanti, Lucia Marinelli, Silvia Muletti, Simona Raimondo, Martina Patamia, Grazia Tomassetti, Claire Power, Lorenza Pensato, Giulia Viganò, Marta Perroni. In bocca al lupo di cuore a tutti voi.

Dicevo all’inizio che ho imparato tanto insegnando. E le dieci cose che credo di aver capito meglio di questo mestiere le trovate sotto. Ma un consiglio prima di uscire di scena vorrei ancora darlo, ai ragazzi della Holden e a tutti quelli che sognano di fare i giornalisti e si sentono dire che è inutile provarci perché tanto i giornali sono in crisi e non assumono.

Provateci invece. Provateci con tutte le vostre forze. C’è bisogno di nuovi giornalisti, c’è bisogno di ragazzi che sappiano usare tutti gli strumenti del mondo digitale nella narrazione di storie. Ma c’è ancora più bisogno di un punto di vista nuovo e originale sul mondo complicato in cui viviamo e che noi adulti spesso raccontiamo secondo stereotipi che non funzionano più. Ma provateci, appunto, con tutte le vostre forze: se invece non siete convinti, lasciate perdere. La strada del giornalismo è lunga e accidentata: è un viaggio intorno al mondo in economica e non una vacanza in un resort.

 

Ed ecco i miei 10 “take away” su quattro anni di Holden.

 

  1. La passione non è tutto. Ma senza non vai da nessuna parte. Il mestiere di giornalista non è un lavoro impiegatizio anche se qualche editore sembra considerarlo tale e qualche collega conta le sette ore per scappare via. Se volete fare i giornalisti, ricordatevi prima di tutto di esserlo. E se lo siete lo siete sempre e per sempre.

  2. Il giornalismo è un mestiere con una sua tecnicità. Si impara facendolo e facendone tanto. Ogni giorno. Cambiando generi e argomenti. Si migliora ogni giorno, oppure, se non si migliora, si peggiora e basta. Ma si impara anche leggendo e ascoltando e guardando il lavoro di grandi giornalisti, fotoreporter e videomaker. Impossibile farne a meno. Esattamente come non si può fare grande cinema senza aver visto i film dei maestri del cinema.

  3. Fare i giornalisti al tempo di Internet è una straordinaria opportunità rispetto al recente passato per due ragioni: accesso a fonti infinite; possibilità di pubblicare contenuti a costo zero in autonomia (ma il grande giornalismo, va ricordato, ha dei costi, è solo la pubblicazione che oggi è a costo zero o quasi: basta farsi un sito o aprire un blog). Il giornalismo digitale richiede però molte più competenze tecniche di quando il nostro unico strumento era la macchina da scrivere (e in qualche caso il mini registratore con le micro-cassette). Oggi è necessario saper scrivere per un sito, saper aprire e gestire un blog, saper stare sui social media, saper tagliare e montare un video, saper scattare una foto anche col cellulare e renderla adatta alla pubblicazione, saper creare una mappa meglio se interattiva magari partendo da una noiosa tabella, saper distinguere le fonti e conoscere la gestione dei diritti dei contenuti sul web. E forse non basta.

  4. Fare i giornalisti al tempo di Internet però non vuol dire solo sapere scrivere per un sito o fare un blog e fare tutte quelle altre cose. Significa soprattutto produrre notizie e storie per dei lettori che sono già assediati da notizie e storie. Quelle che scegli di raccontare e il modo in cui lo farai, sono il motivo per cui saranno o non saranno lette. E quindi le cose più importanti dipendono da te, la scelta e la qualità.

  5. Il fact-checking non può essere il “di più” da aggiungere al tuo lavoro ogni tanto. E nemmeno una moda per contrastare la post verità (che non è nata con Internet, ricordiamolo sempre). Il fact checking è un metodo di lavoro quotidiano. Perché la verità conta. La verità dei fatti. E se è vero che la realtà è un mix di fatti e storytelling, uno storytelling senza fatti veri e accertati è la negazione del giornalismo. E’ letteratura, magari bellissima, ma quando si traveste da giornalismo, è solo spazzatura.

  6. Il giornalismo immersivo e in 3D, così come quello con i droni, è intrigante ma esiste solo teoricamente. Il fatto che ci siano telecamere in grado di filmare qualcosa a 360 gradi o meglio ancora in tre dimensioni, non vuol dire che ci siano storie che si prestano ad essere raccontate in questo modo. Almeno finora non se ne sono viste. I tentativi anche di grandi giornali di veicolare video a 360 gradi non hanno ancora trovato un pubblico in grado di apprezzare questa tecnica. E il problema non è la tecnica ma il fatto che il contenuto vince sempre sulla tecnologia. Chi però indovinerà per primo come utilizzare la realtà virtuale nel giornalismo, avrà un bel vantaggio su tutti.

  7. Le vere inchieste sono una roba complicata, lunga, che richiede tempo e metodo. E quindi soldi, gli editori dovrebbero ricordarselo. Internet da questo punto di vista offre una opportunità: consente di farle assieme ai propri lettori, la propria community, aggregando notizie, storie, documenti e ricevendo feedback strada facendo. L’inchiesta partecipata è una delle strade del giornalismo digitale.

  8. Per trovare lavoro come giornalisti ci sono tre strade. La più battuta richiede pazienza: è quella di sperare di entrare in un grande giornale: si fanno anni di anticamera da collaboratori, nel migliore dei casi quell’anticamera diventa precariato (altri anni), e quando ormai non ne puoi più e inizi a odiare questo mestiere, vieni assunto per evitare che ti faccia assumere un giudice. Personalmente non la consiglio. La seconda richiede spirito imprenditoriale: si individua una nicchia di mercato lasciata scoperta dal giornalismo tradizionale e si costruisce con dei colleghi una piccola impresa editoriale, una startup, che fornisca con regolarità quel prodotto ai giornali. Gli esempi di successo sono tanti, ne cito alcuni: Vista (video), Public Policy (lavori parlamentari), YouTrend (sondaggi), FormicaBlu (data journalism), TPI (politica internazionale), PagellaPolitica (fact-checking). Sono aziende piccole ma hanno i conti in ordine e crescono bene perché lavorano bene. La terza richiede spirito di avventura: si sceglie un paese del mondo ricco di storie e notizie ma ancora non adeguatamente coperto dai giornali tradizionali, e ci si trasferisce lì per un po’, vendendo articoli, foto e video a vari interlocutori. Negli anni ‘80 una generazione di giornalisti italiani di notevole livello (da Lucia Annunziata a Gianni Riotta, per citarne un paio) si è formata così a New York. Oggi lo stesso potrebbe accadere andando a Pechino. O anche più vicino.

  9. La qualità vince sempre. Anzi, è l’unica cosa che serve a vincere la partita del giornalismo. Nel flusso incessante di informazioni - alcune molto scadenti - in cui siamo immersi, una storia scritta bene, al momento giusto, su un tema rilevante è una pepita, una pietra preziosa che i lettori si passeranno e custodiranno. E servirà a costruirti una community e a fare del tuo nome un brand, una garanzia.

  10. Riuscire a vivere di giornalismo è una fortuna di cui non dovremmo smettere di ringraziare il destino. Perché è uno dei mestieri più appassionanti e divertenti del mondo, anche nei giorni in cui ti sembra noioso (e ce ne stanno). Ma il giornalismo è soprattutto un servizio pubblico. Con il nostro lavoro quotidiano contribuiamo a creare una pubblica opinione informata, ovvero l’ingrediente fondamentale di una democrazia che funziona. Ma soprattutto abbiamo la possibilità di dare voce a chi non ne ha, di denunciare ingiustizie, di smascherare soprusi. Un buon giornalista sta sempre dalla parte dei deboli e questo dà un senso profondo alla fatica quotidiana che facciamo.