Come funzionano (e perché non servono) le app che promettono la felicità
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Come funzionano (e perché non servono) le app che promettono la felicità
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Il successo di queste e altre app simili non è un caso. Il mercato, anche se fa orrore parlare di mercato per un tema così delicato, è in crescita: negli Stati Uniti per esempio il numero dei suicidi è al suo massimo da 30 anni a questa parte: era il 1988. E il suicidio è la seconda causa di morte fra i giovani. Non ho motivi di credere che in Italia i dati siano molto differenti. Ma non sto neanche dicendo che una app del telefonino possa avere un effetto determinante in casi così delicati. Sto dicendo che non mi stupisce che abbiano successo: che molti le scarichino, le provino e poi decidano anche di sottoscrivere i piani di abbonamento per consigli personalizzati. Ce ne sono di mensili, annuali e anche a vita (399 dollari e non ci pensi più), il che mi sembra richieda una dose di ottimismo non scontata in casi simili.

Fondamentalmente partono dal medesimo postulato e funzionano nello stesso modo: il postulato è che tutta questa vita social alla fine ci sta creando dei danni. Ci sono ormai decine di studi scientifici che lo dimostrano: il problema è che tra like e cuoricini stiamo spostando il nostro baricentro, quello che ci rende felici, da noi stessi al giudizio degli altri e questo alla lunga è un problema. Per questo motivo ormai anche Apple e Google nei loro telefonini hanno inserito funzioni che ci aiutano ad usarli di meno.

Le app invece puntano a farci usare il telefonino in modo differente: l’idea è di fare un bio-hack del cervello in 5 minuti, una specie di psico-terapia quotidiana fatta di test, disegnini, musica e respirazione su piccolo schermo. Ne ho provate un paio e non è che fossi molto più felice dopo ma mi rendo conto che si tratta di un test piuttosto limitato. In realtà continuo a pensare che per la felicità dovremmo recuperare prima di tutto la capacità di sognare. E per farlo spegnere il telefonino a volte è indispensabile.

Nei giorni scorsi mi ha colpito la bellissima intervista di Candida Morvillo sul Corriere a un grandissimo italiano, quel Mario Bellini che ha disegnato e progettato edifici, villaggi, ma anche sedie, tavoli, lampade e altri oggetti che hanno cambiato il nostro modo di vivere; tra questi il primo personal computer della storia, la P101, nel 1964. Ha 83 anni Bellini e sta da dio. Alla domanda su come gli vengano le idee, risponde così: “Disteso a letto, prima di dormire, a occhi chiusi. Mentre la coscienza si spegne è possibile immaginare le cose più complesse, la mente si espande, diventa un luogo”. Non mi pare uno che stia lì a controllare le notifiche di whatsapp prima di dormire come molti di noi. Mi sembra un tipo felice.

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