“Ora basta figli di puttana” è il messaggio che un clan di narcotrafficanti scrive sul corpo decapitato di una donna di Tijuana, città di frontiera del nord del Messico. La frase è un avvertimento per il clan rivale; l’abbandono del corpo assassinato in un luogo pubblico, il segnale perentorio del “governo” di quel territorio.
Il significato della frase viene spiegato da Teresa Margolles, artista messicana, da anni impegnata nella denuncia della brutalità del narcotraffico nel suo Paese. L’immagine cui rimanda la frase è altamente drammatica e testimonia la ferocia di persone violente e senza pietà, ma Teresa Margolles recupera quelle parole come titolo della sua mostra 'Ya basta hijos de puta' cambiandone il senso: non più un avvertimento della malavita, ma l’urlo disperato di un’artista che vuole dire basta alla violenza sulle donne, all’odio di genere, all’ingiustizia sociale.
Due tipi di violenza
Nella sua personale al PAC di Milano, Margolles racconta due tipi di violenze: quella causata dalla guerra tra i cartelli della droga che genera assassini, sparizioni di giovani donne, femminicidi e quella causata dalla lotta al narcotraffico che ha portato alla distruzione del tessuto urbano, architettonico e sociale.
Un esempio è mostrato dalle grandi foto nella prima sala intitolate “Piste da ballo”. Il tema delle immagini e il tipo di inquadratura si ripetono, ma variano ogni volta il protagonista e il luogo. Le immagini ritraggono i resti di locali notturni che si trovavano nel centro di Ciudad Juárez, cittadina di confine con gli Stati Uniti, nota per le violenze dei narcotrafficanti. Nei locali lavoravano prostitute transessuali e si spacciavano stupefacenti.
I locali furono demoliti negli anni Novanta per la politica di rigenerazione urbana. Le donne furono espulse dal centro ma, una volta costrette ai margini della città, le si espose a un drammatico aumento di violenze.
Per le sue foto, Teresa Margolles riporta alla luce frammenti di pavimento delle piste da ballo dove ritrae le prostitute che si “riappropriano” di quello che fu il loro luogo di lavoro. Orgogliosamente in piedi, con lo sguardo fiero, dritto verso l’obiettivo, riaffermano il loro diritto a esistere libere da violenze.
Gioielli sporchi di sangue
“Gioielli” è il nome di un gruppo di opere esposte in una sala immersa nella penombra. Piccole teche illuminate espongono gioielli in oro con incastonate pietre dalle forma irregolari. I gioielli li ha fatti realizzare Teresa Margolles sullo stile dei vistosi monili indossati dai trafficanti di droga. Solo alla fine però si comprende che, al posto di pietre preziose, sono incastonati frammenti di vetri rotti (parabrezza, vetrine di negozi, finestre) che l’artista ha prelevato dai cadaveri giunti in obitorio a seguito di regolamenti di conti. L’effetto è spiazzante, ogni gioiello porta in sé un marchio di bellezza e orrore, bellezza e morte.
Un’altra installazione, “57 corpi”, è costituita da 57 segmenti di filo, legati tra loro da piccoli nodi e teso per quasi 22 metri da una parete all’altra di una grande sala. Anche quest’opera porta un carico di drammaticità che si rivela solo dopo aver appreso l’origine di quel materiale. Si tratta dei residui del filo di sutura utilizzato, dopo l’autopsia, per ricucire i corpi di vittime di atti violenti. Ogni filo è passato attraverso quei corpi e ne porta la memoria. Teresa Margolles li ha recuperati per portare testimonianza di un orrore che si ripete silenzioso e che non trova spazio per una efficace denuncia collettiva.
Eros e morte
Anche quando questi crimini appaiono sulle copertine dei giornali, come evidente nell’installazione “PM10” che riunisce 313 copertine del quotidiano di Ciudad Juárez, la denuncia viene annientata dal frastuono generato dall’abbondanza di titoli sensazionalistici, dalle foto di drammatica violenza, dalle pubblicità erotiche.
Queste opere, insieme alle altre presentate da Teresa Margolles, costituiscono una mostra di forte impatto. La potenza drammatica che lo spettatore percepisce non nasce dalla crudezza delle immagini, ma dal contrasto spiazzante espresso dalle opere: alla prima impressione di neutralità o addirittura bellezza segue il messaggio tragico che nella sua asciuttezza si imprime a lungo nella memoria di chi osserva.