Uno dei privilegi di chi campa scrivendo di musica è dovere, almeno una volta a settimana, fare due passi per le classifiche di Spotify per capire cosa, in Italia e nel mondo, si sta ascoltando. Le classifiche italiane, duole dirlo, sono certamente le più noiose in assoluto. In altre nazioni, soprattutto negli Stati Uniti, la varietà di generi è talmente vasta da concedere spazio e pubblico più o meno a tutti; noi, quando ci fissiamo, diventiamo cavalli con lo sguardo recintato.
Negli ultimi tempi i nomi sono sempre gli stessi, totalmente sconosciuti alla mia generazione; non a me, ma solo per lavoro, sennò Gemitaiz sarebbe un cocktail, Coez un’imprecazione veneta e Dark Polo Gang una nuova categoria su YouPorn. Sempre gli stessi nomi che fanno sempre lo stesso genere, per questo sconosciuti a chi, come me, è cresciuto in continuo bilico tra cantautorato e rock.
Ma, c’è da dire, il fenomeno trap/rap/indie che ha investito l’Italia già da tempo imperversa nelle classifiche di tutto il mondo, e noi faremmo meglio a smetterla di lamentarci e cominciare a stare a sentire un po' di più cosa una generazione che raccoglie ascolti a sei zeri ha da dire. Sempre che abbia qualcosa da dire, è ovvio. E alle volte i nostri dubbi sono del tutto ragionevoli. Quindi niente di speciale, niente di cui lamentarsi.
Certo, alcuni di questi ragazzi faranno presto la fortuna dei ristoratori delle coste di tutta la penisola durante le stagioni estive, quando arrivano i turisti, il lavoro aumenta e c’è sempre bisogno di una mano per lavare piatti e servire pseudo-granite (arriva l’estate, vi cada la lingua ogniqualvolta bestemmierete quel termine!) a prezzi spropositati; su questo non v’è alcun dubbio. Altri sono ragazzi che adesso, of course, si riferiscono ad un pubblico molto giovane, parlando una lingua che nemmeno un 34enne che tenta di abbassarsi l’età andando in giro con le Converse come me riesce a capire; ma che in futuro, crescendo (e cresceranno), parleranno ad un target dalle braccia decisamente più larghe, e noi, sempre con le nostre Converse ai piedi e il Maalox in tasca, staremo lì ad aspettarli con ansia.
Una classifica particolarmente interessante che trovate sulla stessa piattaforma è quella “Viral 50”, ovvero, paese per paese (e globale), i brani più virali, quei brani cioè più condivisi. Una classifica che ti restituisce una misura molto più precisa di ciò che in Italia, ad esempio, ci si diverte ad ascoltare tra un tormentone e un altro. Per esempio, già da molte settimane, ai vertici di questa classifica, intoccabile, staziona Bella Ciao, e no, non ci troviamo di fronte ad un ritrovato spirito patriottico, ma trattasi delle conseguenze del successo di una serie tv spagnola (anche piuttosto bruttina) rintracciabile su Netflix dal titolo La casa di carta, che narra le vicende di una banda di ladri intenta a derubare la zecca di stato, e che intona il popolare canto antifascista per darsi la carica durante il furto. Black humor imporrebbe un rapido link alla storia recente della sinistra italiana, ma noi a certe tentazioni preferiamo non cedere. Giammai.
Tornando alla classifica Viral, questa settimana, dribblando abilmente Alvaro Soler e qualsiasi altro interprete mi ricordi un gelato della Algida, e scorrendola con lo sguardo dal basso verso l’alto ad un certo punto trovo un nome in decima posizione che, sinceramente, non mi aspettavo. Un nome che mi è arrivato come un pugno in un occhio o, forse sarebbe più azzeccato, un arcobaleno mentre fuori ancora diluvia e non accenna a smettere: Rino Gaetano. “Per dindirinina!”, mi dico (mi sono imposto di ridimensionare il più possibile il lessico, per la versione del pezzo over 18 scrivetemi pure in privato) “che diavolaccio ci fa Rino Gaetano in classifica al decimo posto subito sotto Calcutta e Carl Brave??!”. Le classifiche di Spotify non hanno mai ospitato nomi storici del pop italiano, masticano e sputano le Laure Pausini in un battito d’ali di colibrì, per dire, per cui giustificherete il mio stupore e la conseguenziale voglia di scriverne.
La canzone in questione si intitola “Ti voglio” ed è presentata come un featuring tra Rino Gaetano e Artù, cantautore della scena romana. Fiutando l’ennesima operazione commerciale sulle ceneri dell’amatissimo interprete calabrese (ancora nervoso per il penoso omaggio a Pino Daniele andato in onda la sera prima sulla Rai), clicco immediatamente play, non posso farne a meno, devo ammetterlo, già con la tastiera tra i denti pronto a distruggere Artù sperando, allargando la raffica, di colpire anche chiunque nella capitale triti ghiaccio e sciroppo industriale e la spacci per granita (smettetela, davvero).
Invece, cavolo, la sorpresa è stata grande. La mascella ha allentato la tensione per sciogliersi in un sorriso. “Ti voglio” è divertente, e assai. Ti resta in testa dopo l’ascolto, hai voglia di riascoltarla, la fischietti mentre penzoli per casa, accenni due movimenti d’anca ridicoli, fa uscire fuori dalla finestra il sole come soltanto le canzoni del grandissimo Rino Gaetano riescono a fare. Passi davanti allo specchio barcollando a tempo di musica con una smorfia beota stampata sul viso e ti chiedi “Ma che ti sta succedendo??!”. Da dove salta fuori questo progetto?
Il pezzo, opera incompiuta del cantautore calabrese scomparso ormai 37 anni fa, a quanto pare, è stato affidato per essere completato appunto ad Alessio Dari, in arte Artù, direttamente dalle mani di Anna Gaetano, sorella di Rino. Il termine featuring non viene utilizzato a caso dato che gli ultimi 30 secondi del brano vengono cantati, eh si, proprio da Rino Gaetano, che oltre al testo ci ha lasciato anche una registrazione che Artù ha perfettamente integrato. A proposito, perché proprio Artù? Effettivamente la scelta di donna Anna è stata assai rischiosa perché la voce di Artù, ma in Italia non è l’unica, un po' per fisica attitudine, un po' per evidente omaggio ad un mito come Gaetano, a quella di Rino assomiglia moltissimo, cosa che in “Ti voglio” è talmente evidente da esplodere, fortunatamente come un fuoco d’artificio, senza fare vittime. Insomma, poteva finire veramente male.
L’esperimento invece risulta quasi commovente, questo perché Artù è riuscito nell’impresa più grande, quella di trattare con enorme rispetto il lavoro di Gaetano, mantenendo pressoché intatta quella leggerezza magica e sopra le righe che ha caratterizzato tutta l’opera di un cantautore che, come molti suoi colleghi, ci ha lasciato troppo presto e ancora piangiamo. L’uscita del brano è stata accompagnata da quella di un bel video girato da Maurizio Nichetti, uno dei registi più eccentrici, preparati e, forse, sottovalutati del nostro cinema, che non solo ammirava Rino Gaetano ma da Rino Gaetano ebbe anche l’onore di essere citato in un pezzo: Ufo a ufo ("L'anno prossimo giro un film con Nichetti Ufotaplan").
L’istinto a questo punto mi porta chiaramente a dirigermi verso l’ascolto di Vola Ale!, terza fatica di Artù, dove trovo altri brani molto interessanti (Ci credi davvero e Io lei e il cane su tutti). È un buon disco quello di Artù, che gli permetterà di girare un po' e farsi riabbracciare dal suo pubblico affatto esiguo, anche se tra “Ti voglio” e gli altri pezzi resta un abisso forse incolmabile. Ma “Ti voglio” l’ha scritta in buona parte Rino Gaetano quindi ci può stare benissimo. Il consiglio è quello di individuare meglio uno stile più decifrabile, modernizzare un po' il sound, alle volte decisamente troppo retrò e, soprattutto, scrollarsi di dosso questa romanità alla Mannarino, che non risulta vincente dato che di Mannarino ce n’è uno e anche lui comincia a stufare come gli ospiti parcheggiati sul divano per troppo tempo.
La classifica Viral di Spotify ha anche un’altra atroce caratteristica, quella di mutare radicalmente da un giorno all’altro, così domani “Ti voglio” potrebbe ingiustamente ritornare nell’oblio, surclassata in ascolti, download e condivisioni da una nuova ondata di giovinastri che surfano le classifiche col physique du rôle di questa nuova generazione di cantanti androidi perfetti. Che sono belli, stilosissimi (quanto cavolo sono cciovane??!), a volte anche bravini, ma che risultano deprimenti quando per le orecchie orbita di nuovo la voce di chi ha reso grande il nostro cantautorato. E so di fare la figura del vecchietto che osserva i lavori, ma la differenza è davvero netta, e chi ama la musica ha il dovere di non dimenticare.
Non ho 70 anni, intendiamoci, ma la metà, e i cantautori dei quali vi scrivo, tipo Dalla, Daniele, Battisti, De Gregori, De Andrè, Paoli, Tenco, Baglioni, Vecchioni e, si certamente, Rino Gaetano, non sono della mia generazione ma di quella di mio padre. Quindi non sto sventolando alcuna bandiera, non è una sfida a chi c’ha il cantautore più grosso. L’analisi è oggettiva: la musica italiana è in totale declino. Ha perso della sua essenza e, a questo punto, spero, del suo essere voce di una generazione. Perché se questa generazione da dire ha solo ciò che sentiamo da qualche anno a questa parte, allora possiamo anche cominciare a preoccuparci sul serio. Si, è tutto cambiato, la risposta me la sono data già da solo e da tempo; e si, non ci si può aspettare molto di più da una generazione imbambolata da Maria De Filippi, e si, non bisogna averne paura, io infatti sto qui a combattere tutti i giorni, ma mi chiedo: esiste un posto dove qualcuno sta scrivendo Nuntereggae più? Oppure il massimo del significato che riescono a dare alla loro (r)esistenza come artisti è tatuarsi la faccia? Noi comunque continuiamo a sperare, ad ascoltare. Siamo qui. Non ci muoviamo. Fate con comodo. Intanto sono le 18:25 di un venerdì, fuori dalla finestra c’è il sole, forse perché è giugno o forse perché ho appena messo su Mio fratello è figlio unico.